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~ "Non ci sono tante pietre al mondo!"

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Rachael Yamagata @ Wishlist, Roma

02 martedì Mag 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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America, arte, bellezza, cantautori, chitarra, comunicazione, concerto, Dave Matthews, Elephants, Elephants... Teeth sinking into heart, emozione, Happenstance, indie, indie rock, introspezione, Lady Lamb, live, musica, musica dal vivo, musica indie, musica indipendente, musica live, one man show, one woman show, passione, pianoforte, Rachael Yamagata, Roma, Sunday afternoon, Tightrope walker, Trump, USA, vocalist, voce, Wishlist, Yamagata

Dopo svariati anni di attesa, più precisamente oltre 8, da quando sono entrato in possesso di “Elephants… Teeth sinking into heart”, un disco che ha letteralmente cambiato i miei gusti musicali, venerdì ho finalmente avuto la fortuna di vedere Rachael Yamagata esibirsi live. Nel settembre 2015 l’avevo mancata ad Amsterdam di circa una settimana, ma avevo in compenso avuto la fortuna di potermi innamorare di Lady Lamb. Venerdì 28 aprile si è esibita, da sola sul palco, al Whishlist di Roma – un posto in cui non ero mai stato, piccolo ed intimo con un’acustica davvero eccezionale, almeno per un concerto per voce ed un solo strumento.

Ci sarebbero preliminarmente un paio di cose da dire sulla spalla, il secondo tizio in 3 settimane, dopo Dave Matthews, a domandare perdono per il presidente eletto dai suoi compatrioti, ma si finirebbe a parlare dell’inutilità dello scusarsi nel paese che ha inventato il magnate dei media che fa demagogia e vince le elezioni, quindi sorvoliamo e concentriamoci sul concerto vero e proprio.

Rachael Yamagata è un’artista travolgente. Ha una voce roca, graffiante e molto potente, sa come usarla e non ha paura di farlo – forse perché ha bisogno di farlo. Sul palco è meravigliosa: riesce a cantare brani assolutamente devastanti ed ad introdurli in modo divertente senza che le due cose contrastino – detto in altre parole, sa ironizzare sui propri dolori ed i propri fallimenti e sul processo di razionalizzazione, senza sminuirli né dare l’idea di cazzeggiare. Quando canta in sala c’è il silenzio assoluto, il pubblico (circa 120 persone, a naso poco meno della metà aveva una discreta conoscenza del suo repertorio) è rapito dalla sua forza e dalla sua intensità.

Alcuni momenti deliranti a caso. Dopo aver iniziato il concerto con “Be, be your love”, pezzo dilaniante del suo album di debutto “Happenstance”, Rachael ci ha assicurato che l’esibizione non sarebbe stata proprio tutta così; ha poi proseguito dicendo che di solito, a metà del pezzo, il pubblico si vuole suicidare, ed alla fine vuole uccidere lei. Dopo un altro brano particolarmente duro, ha chiesto ai presenti se ci fosse qualcuno al primo appuntamento; avendo visto zero mani alzate, ha convenuto che sarebbe stato il concerto sbagliato ed ha chiesto se invece ci fosse qualcuno che voleva lasciare il partner ma ancora non aveva trovato il coraggio di dirglielo; poi ha aggiunto che un suo concerto è un buon posto per conoscersi, perché gli uomini che vanno a vederlo sono di solito molto consapevoli dei loro sentimenti, e le donne hanno avuto almeno una volta il cuore spezzato – probabilmente un’ottima fotografia dei suoi fan. Verso la fine del concerto, sedendosi al piano, ha chiesto ai presenti che pezzo volessero sentire; il sondaggio è stato vinto dall’incommensurabile “Sunday afternoon” (che peraltro io sono stato il primo a richiedere), che però doveva essere suonata alla chitarra, quindi Rachael ha chiesto che pezzo volevamo che suonasse al piano: ha vinto “Elephants”, altro pezzo sontuoso.

Un concerto eccezionale. Non sono esattamente un fan degli one (wo)man show, ma Rachael Yamagata ha una capacità superiore di stare sul palco, una voce pazzesca, e l’assoluta motivazione a massacrare le corde di una chitarra acustica, se ha solo quella per accompagnare le sue grida potenti e disperanti – non è un caso che abbia suonato tutti i pezzi più strazianti alla chitarra, mentre il pianoforte era riservato a quelli più riflessivi e malinconici. È una che fa un grosso lavoro di introspezione e di analisi dei suoi sentimenti, per poi buttarli giù senza filtri: in questo modo, una volta trovata la chiave del suo linguaggio musicale, le sue canzoni non ti parlano di lei, ma di te stesso e delle tue emozioni. Un’esibizione di una come Rachael Yamagata, esattamente come i suoi dischi, non comporta l’ascolto di un’artista che racconta e mette a nudo sé stessa, ma che ti scava dentro, ti mostra te stesso, oltretutto in un modo scuro e molto doloroso. È un’esperienza estenuante, da cui si esce più consapevoli, ma anche un po’ rintronati. Da questo punto di vista, la sua autoironia è fondamentale, altrimenti un suo live sarebbe una sequenza di calci in faccia.

Spero di vederla presto anche con la band. Nel frattempo, grazie di tutto!

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Il cosiddetto Muslim Ban e le generalizzazioni

30 lunedì Gen 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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America, cialtroni, comuincazione, Donald Trump, fascisti, fondamentalismo islamico, generalizzare, generalizzazione, Hillary Clinton, islam, Italia, manipolazione, media, Medio Oriente, Muslim Ban, musulmani, Occidente, paura, politica, radicalizzazione, razzismo, razzisti, Salvini, social media, Stati Uniti, Trump, USA, xenofobia

Dal momento dell’approvazione della norma che vieta l’ingresso negli Stati Uniti a persone nate in 7 paesi compresi tra l’Africa nord-orientale ed il Medio Oriente, gira, in diverse declinazioni, un concetto sconfortante ai limiti del razzismo: l’idea che il cosiddetto Muslim Ban (lo chiamo così per semplificare e farmi capire, ben sapendo che è un’espressione ipocrita e razzista, che il divieto di ingresso non ha niente a che fare con la religione musulmana e che una generalizzazione di questo tipo serve soltanto a demagoghi xenofobi come Trump e Salvini) avrebbe come effetto la radicalizzazione dei musulmani contro gli Stati Uniti.

Io sono un cittadino italiano perfettamente consapevole che Donald Trump è uno stronzo razzista, ignorante, violento e pericoloso, l’uomo sbagliato al posto sbagliato; sono anche perfettamente consapevole che, con tutti i limiti della scarsa affluenza e del fatto che ha preso meno voti di Hillary Clinton, è stato votato da una larga fetta della popolazione degli Stati Uniti, che pertanto tratto con diffidenza – pur consapevole che l’alternativa era una donna delle lobby che, in quanto opposta ad un imbecille di tale caratura, sarebbe poi stato impossibile criticare. Se domattina l’amministrazione americana dovesse chiudere le frontiere a turisti e migranti italiani, non radicalizzerei il mio sentimento nazionalista anti-americano: la troverei una trovata bislacca, offensiva, anacronistica e profondamente cretina, ma non diventerei un fascistello con il tricolore sulla manica e non inizierei a predicare la distruzione dell’America.

L’idea che i musulmani dovrebbero radicalizzarsi contro gli Stati Uniti perché un deficiente, eletto da una porzione della popolazione composta da semianalfabeti edonisti, chiude le frontiere nei confronti di sette paesi a maggioranza musulmana, sottintende una concezione del musulmano tipo che rasenta il cavernicolo: disinformato, manipolato, sempre pronto ad odiare qualcuno, che muove le proprie percezioni all’interno di una massa compatta, uniforme, intrinsecamente violenta ed acritica. Il che somiglia molto di più alla definizione di “elettore di Trump” (e di Salvini), che di “musulmano”.

Se io fossi un musulmano, come prima cosa mi aspetterei che si contestasse l’utilizzo dell’espressione “Muslim Ban” per il provvedimento, perché si tratta di una paraculata demagogica inutile che finge di prendere a cuore il problema del fondamentalismo islamico, di cui i musulmani sono le prime vittime, prendendo per il culo qualche miliardo di individui e creando problemi kafkiani a qualche migliaio di poveracci in larga parte musulmani, non di una misura contro i musulmani. In secondo luogo, mi augurerei che il mio ipotetico paese di origine, che fosse l’Iran, la Somalia o la Siria, prenda le opportune contromisure, a livello diplomatico ed economico, ad esempio rispedendo a casa gli ambasciatori USA, rifiutandosi di vendere ad aziende americane il petrolio nazionale e chiedendo salatissime imposte alle potentissime multinazionali statunitensi, sia per vendere i loro prodotti che per produrli in loco con manodopera a basso costo.

Se fossi un musulmano, però, mi aspetterei anche un’altra cosa: che a soffiare sul fuoco dell’odio anti-islam dell’amministrazione americana siano prima di tutto proprio i fondamentalisti islamici, utilizzando il cosiddetto Muslim Ban come prova che l’America, e tutto l’Occidente per estensione, ce l’ha con i musulmani, alimentando desideri di vendetta e di distruzione in chi è abbastanza disperato e disinformato da starli a sentire. In realtà me lo aspetto anche da italiano, ed il fatto che in Occidente giri la preoccupazione che tutto ciò porti a radicalizzare miliardi di musulmani è offensivo, razzista e piuttosto squallido.

Non c’è niente da fare: anche quelli che si ritengono più evoluti, quando si tratta di parlare di musulmani, cedono alla tentazione di generalizzare, banalizzare e soprattutto considerarli alla stregua di un gregge di pecore.

Il cosiddetto Muslim Ban fa un favore a fondamentalisti ed amenità contigue? Certo che sì, dà un supporto oggettivo alla teoria della persecuzione contro di loro. Radicalizza i musulmani presenti in America, Stati Uniti, e finanche quelli nei paesi colpiti dal blocco? Cerchiamo di non essere ridicoli.

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Eli Gold

14 mercoledì Dic 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di tv, Un mondo di cialtroni

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Alan Cumming, America, cialtroni, comunicazione, Eli Gold, endorsement, immagine, io voto No, Jim Messina, Matteo Renzi, Messina, no, PD, politica, Prodi, referendum, referendum costituzionale, Renzi, ridicolo, Romano Prodi, Serie TV, social media, spin doctor, Stati Uniti, televisione, The good wife, tv, USA, Vietnam

Una delle più interessanti serie televisive degli ultimi anni è “The good wife”. Per chi non l’avesse mai vista, si tratta della storia di Alicia Florrick, moglie del procuratore generale dell’Illinois (Peter Florrick), che, da donna che aveva lasciato il lavoro per curare la casa ed i figli mentre il marito faceva carriera politica, intraprende di nuovo la carriera di avvocato a seguito dell’arresto del marito nell’ambito di uno scandalo di sesso e corruzione.

Le storie di marito e moglie, lei nel suo studio legale, lui che all’inizio lotta per provare la sua innocenza e poi ricomincia la sua attività politica, sono sviluppate in parallelo e sono trattate in modo tecnicamente molto accurato. Uno dei personaggi più interessanti dell’intero cast è quello del consulente politico e di immagine di Peter Florrick, uno squalo abile ed estremamente efficiente, di nome Eli Gold, interpretato da Alan Cumming.

Eli Gold di fatto ha tre compiti principali: gestire l’immagine pubblica di Peter Florrick, stabilendo come deve apparire, cosa deve esprimere, come e quando deve esprimerlo, e soprattutto cosa è meglio che non faccia; gestire la comunicazione on line, dirigendo le discussioni sui social media e tamponando i danni di possibili situazioni ostili; procacciare endorsement pubblici da parte di persone note della comunità locale, capaci di spostare voti potenzialmente decisivi. Il lavoro di Eli Gold nella serie è mostrato molto dettagliatamente, a volte in modo realistico, altre sfruttando il talento di Cumming per dare un taglio parodico al delirio della politica americana.

Eli Gold è dunque una rappresentazione televisiva del super-consulente assunto e strapagato dal PD per la campagna referendaria, Jim Messina. Il quale, da bravo americano, è arrivato in Italia e ha applicato le sue regole alla lettera, punto dopo punto, come se la società italiana fosse lo specchio esatto di quella americana. A volte, esattamente come Gold nel telefilm, è sembrato andare a braccio, in alcune circostanze non è stato in grado di tenere sotto controllo i suoi assistiti, altre volte (diversamente da Gold) ha preso delle topiche clamorose.

A me ha dato l’impressione di non avere un’idea chiarissima del tipo di taglio da dare alla comunicazione di Matteo Renzi, che si è dunque prestato ad esperimenti ai limiti dell’assurdo, come il presentarsi a non ricordo quale evento in maglione, nella mente di Messina come il dinamico, moderno ed affascinante Steve Jobs, agli occhi dell’italiano medio come uno stramicione con la panza che scimmiotta uno più figo di lui. Inoltre, nella sua ricerca disperata dell’endorsement, Messina a pochi giorni dal referendum ha tentato la carta Romano Prodi, che a sinistra non ha spostato una virgola e ha definitivamente convinto gli elettori di Forza Italia e partiti affini a votare No. Infine, una volta capito che in Italia la par condicio e la stampa non sono cose serie, ha sovraesposto Matteo Renzi, mandandolo in diretta ovunque e finendo per nauseare il pubblico invece di compattarlo, soprattutto perché si è reso conto in ritardo che Renzi in diretta faceva un autogol dopo l’altro insultando tutti quelli che avrebbe dovuto convincere.

E fin qui è tutto abbastanza normale, gli americani sono da sempre convinti che quello che vale per loro valga anche nel resto del mondo, poi finisce come in Vietnam ma non imparano niente. La cosa più interessante è che il referendum costituzionale è passato, Renzi è finito esattamente come i vietnamiti del sud, eppure dal punto di vista comunicativo non è cambiato nulla. Il PD continua a non dare nemmeno l’idea di conoscere il concetto di autocritica, Renzi si è ritirato sull’Aventino mentre la maggioranza ha fatto un esecutivo ridicolo che dà l’idea che o non ha capito cosa è successo o non gliene frega niente, i renziani continuano ad insultare la sinistra che non ha votato come avrebbero voluto, immagino sperando di far scattare un meccanismo tipo sindrome di Stoccolma. Nel frattempo l’Italia va avanti, senza un governo od un parlamento minimamente in grado di affrontarne i problemi, figuriamoci risolverli.

In effetti, ora che ci penso, c’è una differenza rispetto al Vietnam: in questo caso, Eli Gold è tornato a casa tranquillo, pieno di soldi e senza nessuna sindrome post-traumatica. Quindi forse gli americani ogni tanto qualcosa la imparano. Noi invece no. Però gli scemi sono sempre gli altri.

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Bruce Springsteen and the E Street Band: “Live 1975-85”

24 lunedì Ott 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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America, arte, artisti, Born in the USA, BOrn to run, Boss, Bruce Springsteen, Bruce Springsteen and the E Street Band, cantautori, comunicazione, concerto, E Street Band, emozioni, live, Live 75-85, mainstream, musica, musica dal vivo, musica pop, musica rock, passione, Patti Smith, pop, rock, rocker, Springsteen, The Boss, USA, vocalist

Chiunque bruce_springsteen-live-75-85abbia visitato in passato queste pagine sa che mi occupo molto raramente di opere mainstream, e di solito in modo critico. Come approccio, quando si tratta di discettare di letteratura, musica, cinema ed altre forme artistiche, sono più propenso a cercare di promuovere artisti o lavori poco conosciuti che meriterebbero a mio avviso un’attenzione diversa.

Quindi, perché parlare di uno dei dischi live più famosi e celebrati della storia della musica, come il quintuplo LP (e triplo CD) “Live 1975-85” pubblicato nel 1986 da Bruce Springsteen con la E Street Band? È molto semplice: perché a me Bruce Springsteen fino a due mesi fa non piaceva – e quello celebrato in tutti il mondo continua a non convincere. Lo trovo un po’ ecumenico, sopravvalutato come rocker (buona parte dei suoi pezzi più conosciuti sono poco più che brani pop, con alcuni picchi sconsolanti tipo “Dancing in the dark”), vagamente prono alle scelte artistiche dall’applauso facile.

Ora, Bruce Springsteen è anche uno che, come molti altri musicisti al mondo (anzi, potrei dire come tutti i veri musicisti del mondo), dal vivo è tutta un’altra cosa: non sono mai stato ad un suo concerto, ma basta un rapidissimo giro su Youtube per accorgersi che una qualsiasi esecuzione live di un suo brano surclassa senza pietà la versione in studio. E questo di per sé è sufficiente a farmi dire “ok: proviamo a sentire un live”. Springsteen è anche uno che è perfettamente d’accordo con me sull’idea di essere sopravvalutato: ha dichiarato più volte di sentirsi in qualche modo a disagio perché tanta gente lo considera una sorta di interprete delle proprie emozioni, mentre lui si sente un privilegiato che non ha la minima idea di quali possano essere i problemi ed i sentimenti di persone che devono massacrarsi per tirare avanti, e trova quasi disonesto che sia la gente comune a ringraziare lui e non il contrario. Un approccio che, al di là di qualsiasi discorso artistico, me lo fa rispettare come essere umano.

Per quello che riguarda gli aspetti musicali, Bruce Springsteen è uno per cui la dicotomia tra ciò che ha successo e ciò che vale veramente è spaventosamente accentuata: basta sentire i primi tre dischi di “Live 75-85” per capirlo. I pezzi più famosi che contengono sono “Because the night”, che nel 1978 regalò a Patti Smith, e “Hungry heart”, in sostanza due canzonette (la seconda peraltro banale e bruttina). Sono anche di gran lunga, ma veramente di un abisso, i pezzi peggiori, meno interessanti, peggio suonati e costruiti di circa due ore e un quarto di musica, che contemporaneamente contiene brani come “Badlands”, “Ramrod”, “Cadillac ranch” e “Rosalita”. Il quarto ed il quinto disco sono invece dominati dai pezzi di “Born in the U.S.A.”, e qui si capiscono due cose: primo, che il suo lavoro più celebre è letteralmente un albumaccio, paragonato a quanto fatto in precedenza; secondo, che comunque diversi brani, a cominciare dalla title track (che sul disco di fatto è un singolo tema ripetuto all’infinito con strumentazione povera), suonati dal vivo ed inframmezzati da momenti molto più intriganti, tra cui “Born to run”, una notevolissima versione di “War”, “Seeds” e “The promised land”, assumono una dignità molto diversa. Il tutto resta terribilmente cantautorale – ed è un peccato avere degli strumentisti così seri, preparati, affiatati e comunicativi ed imbrigliarli in una struttura in cui voce e testo devono rimanere dominanti – ma ha un senso ed è bello, coinvolgente, emotivamente forte.

E insomma, Bruce Springsteen appartiene alla nutrita e, per quello che mi riguarda, encomiabile serie di artisti che comunicano, si esibiscono, per necessità personale: non per esibizionismo, lavoro o voglia di diventare ricchi. È ovvio, di soldi ne ha fatti tanti (e continua a farne, visto quanto costano i biglietti dei suoi concerti), ma la sensazione è che lui suonerebbe anche in un club per 30 persone. Ad uno così, un’occasione, in linea di massima, va data.

Il mio modo di dargliela è l’aver comprato i 5 LP del suo “Live 1975-85”: un disco emozionato ed emozionante, in cui Springsteen canta, parla, suona e la E Street Band si diverte ed adatta i pezzi ad una comunicazione molto più secca e diretta di quella pensata per i dischi in studio. Non sarà il mio disco preferito, e Springsteen non apparterrà al mio Olimpo personale, ma vale decisamente la pena ascoltarlo e riascoltarlo, e magari continuare cercando live e bootleg. Perché il Boss dal vivo è davvero un grande.

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Jonathan Coe: “La famiglia Winshaw”

15 lunedì Feb 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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Jonathan Coe - La famiglia WinshawIn Inghilterra c’è uno scrittore. Dice, ce ne sono tanti. In effetti sì, Jonathan Coe non è l’unico, ma è il prototipo dello scrittore inglese. Uno che ogni volta che presenta un personaggio che parla in prima persona mi fa pensare “questo sono io in versione inglese”. Uno che racconta storie terribili, di denuncia, di disperazione, di formazione ed autoconsapevolezza, con leggerezza e capacità di far sorridere, quando serve, e l’abilità di infilare stoccate e cazzotti in faccia – peraltro anticipandoli adeguatamente, il che da un lato li rende leggermente più facili da assorbire, ma dall’altro comporta che la lettura dei suoi romanzi sia una continua spirale verso il basso, in cui quando si ricomincia a scendere si riparte più o meno dal punto a cui si era arrivati prima.

Ho letto tre o quattro libri di Jonathan Coe. Ne ho altri in coda: li leggerò, ma con calma. Coe non è uno scrittore che si può divorare, non è uno di quelli che ne leggi uno e poi leggi tutti gli altri in sequenza – io non lo faccio con nessuno scrittore, ma ce ne sono alcuni che mi fanno venire la voglia, o almeno che riescono a creare dei filoni o delle saghe che a volte penso di prendere e leggere tutte di seguito, un esempio è Lansdale con Hap e Leonard, un altro è Carofiglio con l’avvocato Guerrieri. Coe non è così. Coe scrive romanzi che riducono le mie certezze in particelle subatomiche, finito uno ho bisogno di una vacanza, altro che cominciarne un altro.

“La famiglia Winshaw” parla degli anni Ottanta in Inghilterra: il periodo della Tatcher, delle lotte contro i lavoratori ed i sindacati, dello yuppismo, dell’America di Reagan che armava Saddam Hussein contro l’Iran, dell’URSS di Gorbachev. Il decennio in cui si sono poste le basi per lo smantellamento dello stato sociale e dei diritti individuali e soprattutto collettivi, il periodo in cui il capitalismo ha smesso di essere un movimento economico per diventare pura avidità, necessità arricchimento a tutti i costi, sulla pelle di tutto e di tutti, 10 milioni di morti domani e chissà quanti l’anno prossimo sono irrilevanti se io posso permettermi un altro cottage nel Sussex.

La famiglia protagonista del romanzo è una sorta di dinastia la cui ricchezza affonda le origini all’inizio del XX secolo e si trova all’inizio del decennio dell’edonismo coi sette membri dell’ultima generazione invischiati in tutto ciò che è potere – politica, media, armi, cibo e via dicendo. Michael Owen, uno scrittore trentottenne in crisi umana e professionale cerca di rimettere insieme i cocci delle ricerche che ha effettuato negli ultimi anni sui Winshaw, dopo che un editore aveva promesso di pagarlo profumatamente per scriverne la storia. La gran parte del libro è dunque basata sull’alternanza tra la presentazione dei singoli membri tramite la penna di Owen e le avventure dello stesso Owen nella Londra a cavallo tra il 1990 ed il 1991, da lui narrate in prima persona. Le ultime 70 pagine sono invece una surreale riunione di famiglia nel vecchio maniero, con Owen presente ma non più narratore, a seguito della morte dell’ultimo patriarca, Mortimer, che ha arrangiato le cose per fare in modo, ça va sans dire, che vecchi scheletri vengano scoperti e antiche colpe espiate.

Un romanzo che, diversamente da altre opere di Coe, non approfondisce più di tanto gli aspetti interiori dei personaggi (anche se quando lo fa picchia giù duro come un macigno), ma preferisce concentrarsi su tematiche socio-politiche: un libro impegnato ed impegnativo, che descrive uno schifo indegno ed indecente, una società senza sbocchi, delle persone prive di qualunque sentimento umano tranne l’avidità, ed un mondo desolante e votato all’autodistruzione, la medesima che vediamo tutti i giorni come naturale conseguenza della storia recente – si può parlare della situazione del Medio Oriente, e degli attentati in giro per l’Europa, ma anche di un sistema economico insostenibile volto a promuovere ed incoraggiare le diseguaglianze e l’esclusione.

Un libro affascinante, spietato, durissimo, quasi un trattato di storia contemporanea, quantomai attuale per chiunque voglia chiedersi dove e quando le cose hanno iniziato ad andare storte. Difficile da leggere senza farsi venire una gastrite, ma necessario.

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Dare l’atomica a Stalin per fermare Hitler

11 venerdì Set 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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11 settembre, 11/9, Afghanistan, America, armi, Assad, Barack Obama, Biden, Chile, cialtroni, Curdi, guerra, Hitler, Iraq, ISIS, Libia, Medio Oriente, Obama, petrolio, Pinochet, PKK, Putin, Rojava, Siria, Stalin, Stati Uniti, Stato Islamico, Turchia, USA, Vladimir Putin

Nel 1941, dopo il bombardamento di Pearl Harbor, gli Stati Uniti entrarono in guerra col Giappone, poi aprirono il secondo fronte in Europa contro la Germania, alleandosi niente meno che con l’Unione Sovietica. Roosvelt, uno statista vero, aveva infatti capito che in Europa c’era un problema – Stalin – ed un’emergenza – Hitler – e per debellare l’emergenza bisognava fare tutto il possibile, finanche allearsi col problema. Col quale ci sarebbe stato tempo per confrontarsi dopo, ad emergenza conclusa.

In Medio Oriente sono cinquant’anni che la politica degli Stati Uniti è riassumibile, nella migliore delle ipotesi, in questo paragone: è come se per combattere Hitler nel 1944, invece di invadere la Normandia e combattere personalmente contro i nazisti, gli americani avessero dato l’atomica a Stalin e gli avessero spiegato come usarla, per poi lamentarsi, cinque anni dopo, che l’URSS era una potenza nucleare. E dico nella migliore delle ipotesi perché a volte gli americani danno direttamente l’atomica, con relative istruzioni, a Hitler – vedi gli alleati sauditi, probabilmente il regime peggiore dell’intera regione, che sta al momento bombardando, armato e spalleggiato dagli USA, lo Yemen nell’assordante silenzio internazionale mentre muoiono centinaia di civili, lo stesso ISIS e già che ci siamo i Talebani contro Breznev trentacinque anni fa.

Lo stesso hanno fatto per tutto il secondo dopoguerra in America Latina, spalleggiando e sostenendo giunte militari di assassini contro lo spettro delle armate rivoluzionarie, ma anche contro dei semplici governi socialdemocratici regolarmente eletti. Oggi, 11 settembre 2015, non è solo il quattordicesimo anniversario degli attentati alle Torri Gemelle ed al Pentagono: ricorrono anche i 42 anni dal golpe di Pinochet contro Salvador Allende – Pinochet, quello della celeberrima stretta di mano con Henry Kissinger, uno che vedeva orde di comunisti ovunque si annidasse una visione del mondo diversa dal sogno americano. Almeno in Vietnam la figura di merda gli Stati Uniti andarono a farla in prima persona, infatti lì non ci sono intere fasce di popolazione che vogliono ammazzare qualunque yankee capiti a tiro.

Adesso il nuovo problema, almeno apparentemente, di quello che accade in Siria è che Vladimir Putin vorrebbe aiutare il governo in carica a fronteggiare lo Stato Islamico, non ergersi a paladino del mondo, tirare una bomba ogni tanto (magari colpendo installazioni civili) e nel frattempo cercare di rimuovere, con le buone o meglio ancora con le cattive, il dittatore in carica – presumo per poi lasciare una situazione analoga a quella lasciata in Afghanistan, Iraq e Libia, dove la gente si spara per strada e gli integralisti fanno quello che vogliono. Il tutto permettendo che la Turchia continui a fingere di bombardare il Califfato massacrando invece il vero nemico, lo stato del Rojava ed il PKK. Poi che Putin cerchi principalmente uno sbocco sul Mediterraneo è possibile se non probabile; resta singolare che gli Stati Uniti, quelli che nella zona hanno armato la qualsiasi su base di mero vantaggio contingente, lo confutino sostenendo che è meglio guardare le varie parti che si massacrano tra loro.

Ma forse in fondo Obama e Biden (quello col figlio nel consiglio d’amministrazione di una società ucraina che iniziò ad installare le infrastrutture per l’estrazione del gas naturale non appena “liberata” Slavyansk) hanno ragione: meglio entrare a Damasco, mettere su il solito fantoccio che non controlla nemmeno il colore delle sue mutande ma che compra armi americane in cambio di petrolio, e nel frattempo prendere un sacco di botte dappertutto scatenando l’anarchia nell’intero paese e concentrando l’intelligence ed il grosso delle forze sul vero avversario, quello che non può nemmeno essere nominato, perché se l’obiettivo fosse sul serio quello dichiarato dovrebbe essere il primissimo alleato degli americani – i Curdi, gli unici che, ad oggi, l’ISIS lo stanno combattendo, ed almeno arginando, davvero.

D’altra parte, quando mai non ha funzionato questa strategia?

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Neoliberisti

05 venerdì Giu 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Un mondo di cialtroni

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Adam Smith, Amazon, America, Angela Merkel, BCE, cartelli, che schifo, cialtroni, David Ricardo, diritto, economia, educazione, Europa, Facebook, feudalesimo, feudatari, Google, istruzione, liberismo, liberisti, libero mercato, mercato, mercato aperto, Merkel, mondo, monopolio, neoliberismo, oligopolio, politica, schifo, servizi, Stati Uniti, teoria economica, UE, Unione Europea, USA

Su queste pagine mi sono scagliato più di una volta contro il sistema economico immaginato, proposto e di fatto imposto e protetto dall’attuale establishment europeo, Merkel e BCE i testa, cadendo anch’io nella trappola semantica di definirlo “liberismo”, “neoliberismo” o “ultra-liberismo”. Anche molti analisti economici seri, oltre a gente impegnata in ambito politico e sociale, commettono il medesimo errore.

Chiariamo una cosa: il sistema economico verso cui tende buona parte delle politiche e delle scelte sociali dell’Europa e dell’intero mondo occidentale non è liberismo. Il liberismo è una dottrina economica che sostanzialmente crede che il mercato, in presenza di alcune condizioni di base come la concorrenza e l’accesso alle risorse, tenda intrinsecamente verso l’equilibrio senza nessun intervento esterno, e dunque che il settore pubblico debba limitarsi a legiferare, tra l’altro il meno possibile, per fare in modo che il mercato non sia drogato da disequilibri, rimanendone tuttavia sempre all’esterno: il mercato è sovrano.

Si può essere d’accordo o meno con questo approccio, che di fatto è un infiocchettamento del concetto di “homo homini lupus”. Io personalmente sono contrario, innanzitutto perché ritengo che un sistema, per dirsi democratico, dovrebbe garantire l’erogazione di alcuni servizi di base come l’educazione, la salute e l’amministrazione della giustizia. Uno può ritenere che chi non può pagarsi le cure mediche debba morire: per me è un discorso aberrante, ma uno squalo può ritenerlo giusto, tuttavia l’ipotetica giustizia decade quando a farne le spese è il figlio di 8 anni a cui il padre non può comprare un vaccino; lo stesso discorso si potrebbe fare per l’istruzione (quanto è democratico un sistema che non garantisce le stesse opportunità educative a tutti i bambini?) e per il diritto (quanto può dirsi evoluto un paese in cui alcuni diritti civili devono essere soppressi perché anti-economici?). E sono contrario perché trovo che esistano degli ambiti, come le scienze e le arti, che sono fondamentali per lo sviluppo umano, e come tali di pubblico interesse, troppo preziosi per lasciarne lo sviluppo alla brama di guadagno del committente.

Il problema è che tutto questo non è il punto. Come detto, il liberismo suppone che in presenza di alcune regole di base, come la parità di accesso alle risorse e la concorrenza perfetta, che devono essere dunque difese strenuamente, il sistema si aggiusta da solo e non necessita di interventi esterni.

Vediamo dome funzionano alcuni grossi mercati a caso, strategici nell’attuale mondo economico: i produttori di petrolio sono un cartello; le aziende farmaceutiche sono un cartello; i servizi di comunicazione via web sono un oligopolio, tra l’altro suddiviso in aree funzionali all’interno di ognuna delle quali c’è di fatto un monopolista (Google, Amazon, Facebook…); i produttori di tabacco sono un cartello; l’intrattenimento di massa è un oligopolio, oltretutto con barriere all’ingresso spaventose; i produttori di armi sono un cartello; i fornitori di servizi finanziari sono un oligopolio. Tutti questi cartelli ed oligopoli sono impegnati in feroci attività di lobbismo, lecito e spesso anche illecito – un esempio, quanti medici sono foraggiati da Big Pharma per sconsigliare i farmaci generici? Inoltre uno dei principali mercati aperti del pianeta, l’Unione Europea, è una confederazione di stati sovrani tra i quali figurano dei paradisi fiscali, che offrono un vantaggio competitivo a chiunque sia grande abbastanza da poterci spostare la sede – ricordo che le tasse sono un costo, ma la UE preferisce sgridare le librerie di quartiere parigine che si consorziano per fronteggiare il problema.

Dov’è la concorrenza perfetta? Dov’è la parità di accesso alle risorse? Dov’è il liberismo?

Chiunque difenda lo status quo, oggi, non difende il mercato e le sue regole auree, difende solo le rendite di posizione, di solito essendone parte in causa o ricevendo una qualche sovvenzione da chi le percepisce. Oggi i veri liberisti sono pochissimi, e sono di solito persone con cui si può discutere, perché sanno perfettamente che, se Adam Smith o David Ricardo si risvegliassero domani, sarebbero schifati dal mondo economico che si troverebbero davanti. Gli altri non difendono il liberismo: le parole sono importanti e bisogna chiamare le cose col loro nome.

Difendono il feudalesimo.

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La danza delle prove

10 martedì Feb 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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America, Barack Obama, Donbass, Donetsk, Europa, geurra civile, guerra, Il Fatto Quotidiano, Kiev, Merkel, MH17, Novorossiya, Obama, OSCE, Poroschenko, Putin, Russia, Stati Uniti, Ucraina, Vladimir Putin

Adesso Obama ha tuonato contro Putin che non rispetta i patti, che non può imporre le condizioni di pacificazione puntando i fucili contro l’Europa, gli Stati Uniti sono pronti a fornire armi all’Ucraina, cosa che chiunque abbia seguito la faccenda con un’attenzione superiore a “fase REM” considerava praticamente certa da mesi. Persino la Merkel, attuale galoppino delle posizioni statunitensi sul conflitto nell’ex repubblica sovietica, si è allarmata, perché, con la sua mente aperta ed elastica, tipica di una che prima del crollo della DDR stava facendo carriera nel Partito Comunista e ora rappresenta la quinta colonna dell’ultra-liberismo selvaggio, ha capito che una escalation a Kiev potrebbe essere non precisamente l’ideale per i paesi europei, Germania in primis.

Siamo tutti ancora in attesa che il Presidente di un Paese che ha una città in cui viene tagliata la fornitura di acqua e si permette di dare lezioni sulla democrazia al mondo produca anche delle prove di quello che dice sulla Russia. Attendiamo con molta pazienza sin da quando gli americani dissero che avevano delle registrazioni satellitari relative all’abbattimento del volo MH17 nel luglio scorso, salvo poi sostenere che la sciagura era stata causata dai ribelli del Donbass sulla base di buon senso ed analisi dei social media. Sono passati sette mesi e non ci siamo mossi di un millimetro: evidentemente truccare le immagini satellitari in modo che la modifica non sia rintracciabile non dev’essere facile come si vede nei telefilm. Ricordiamo che è sulla base di prove di questo calibro che alla Russia (ed alla Crimea, ma questa storia meriterebbe un approfondimento a parte) sono state comminate sanzioni economiche devastanti, mentre nessuno ha dovuto affrontare ritorsioni dopo aver combinato un pasticcio di dimensioni galattiche in Libia.

Nel frattempo sono avvenute alcune cose. Ad esempio, dopo la grottesca faccenda del convoglio di aiuti alla popolazione dell’Ucraina orientale inviato dalla Russia e bloccato alla frontiera per giorni, poi ispezionato e riconosciuto, poi considerato una forza d’invasione senza spiegare bene come mai e ricacciato indietro, ha iniziato a girare un video che mostra come l’esercito ucraino usi le ambulanze per trasportare armi, il tutto mentre in barba alle pagliacciate tipo “je suis Charlie” Kiev mette sotto processo un giornalista per aver invitato i giovani alla diserzione. Elle in Francia ha pubblicato l’intervista ad una giovane combattente dell’esercito ucraino, salvo poi doversi scusare perché è venuto fuori che la ragazza che parlava della femminilità in uniforme è una nazista, dettaglio che sarebbe stato facilmente verificabile visitando il suo profilo su Facebook. Uno potrebbe pensare che la rivista sia stata molto sfortunata, oltre che molto disattenta, o magari potrebbe fare una ricerca e scoprire che le svastiche sugli elmetti o addirittura tatuate sui corpi dei combattenti ucraini sono tutt’altro che una rarità.

In Italia abbiamo avuto un paio di reportage di Vauro Senesi apparsi sul Fatto Quotidiano, il primo dei quali era più che altro una lunga e didascalica filippica contro la guerra, nel dettaglio molto confusa, in cui si sosteneva che i separatisti avevano colpito un ospedale nella regione russa usando armi dell’esercito ucraino, mentre nel secondo si parlava finalmente di svastiche, di bombe a grappolo usate sulla popolazione filorussa e si iniziava, pur controvoglia, a dare l’idea che ci fossero un invasore ed un invaso.

Adesso Kiev tira fuori per l’ennesima volta la carta dei soldati russi che hanno varcato la frontiera. Cosa che nessuno ha mai negato, men che meno i combattenti del Donbass: si è tuttavia specificato che si è sempre e solo trattato alcune centinaia di volontari partiti di propria iniziativa dalla Russia, non di truppe regolari del Cremlino (d’altra parte di volontari ce ne sono anche di italiani, da entrambe le parti). Sono sempre gli stessi, non ce ne sono di nuovi ogni volta, come peraltro hanno sottolineato svariati osservatori internazionali, tra cui l’OSCE: non c’è nessuna prova, non c’è mai stata nessuna prova che delle truppe russe abbiano sconfinato nel territorio ucraino. Ci sono invece prove che Kiev lancia missili sulla popolazione.

Però le uniche persone credibili sulla situazione nell’est dell’Ucraina sono Barack Obama, anche quando dice di avere le prove di quel che sostiene senza mostrarle mai, e Petro Porošenko, ossia un golpista di simpatie naziste. Ah, beh, allora.

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Il fuggitivo

21 venerdì Nov 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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America, cialtroni, copyright, Corea del Nord, cronaca, Cuba, diritto, diritto d'autore, diritto internazionale, estradizione, file sharing, gustizia, internet, Iran, Kim Dotcom, Kim Schmitz, legge, leggi, Megaupload, Megavideo, Nuova Zelanda, pirateria, Rojadirecta, Russia, soprusi, Stati Uniti

Fatemi capire meglio questa storia.

Gli Stati Uniti fecero chiudere Megaupload, che non aveva i server negli Stati Uniti e non era una compagnia statunitense, per il semplice fatto che utilizzava il dominio “.com”, di cui gli americani sarebbero proprietari, ed era un sito di file sharing che veniva spessissimo utilizzato per condividere materiale coperto da diritto d’autore dai suoi utenti, anzi in pratica era stato creato proprio con questo scopo. Senza entrare nel merito della questione, trovo già abbastanza singolare che ci sia un paese che vanti la proprietà di alcuni domini internet a livello internazionale, che questo sia del tutto indipendente dalle sedi legali e fisiche delle aziende e dei server, e che questo porti effettivamente alla chiusura dei medesimi. La stessa cosa successe peraltro con Rojadirecta.org, che, in prossimità di un superbowl di qualche anno fa, fu chiuso dagli statunitensi in maniera coatta pur essendo il sito registrato in Spagna – ma almeno in quel caso rimasero aperti i mirror con estensioni diverse, e tra l’altro nemmeno tutti. Trovo anche curioso che sia stato chiuso il dominio in uno stato estero e non siano stati perseguiti gli utenti interni che avevano praticamente commesso le violazioni.

Adesso salta fuori che il tizio che aveva messo su Megaupload e Megavideo (ripeto, senza nessuna valutazione di merito su quello che ha fatto o sulla sua persona), tale Kim Schmitz in arte Kim Dotcom, negli Stati Uniti è sotto inchiesta per un reato che il codice penale statunitense non contempla – violazione secondaria del diritto d’autore, o qualcosa del genere. Il che è ridicolo, sarebbe come se le autorità italiane mi mettessero in stato d’accusa per aver portato a spasso il cane con la mano sinistra prima di aver stabilito con provvedimento apposito che detto comportamento non è ammesso. Aggiungo che la piattaforma di file sharing fu all’epoca chiusa dalla sera alla mattina, con buona pace di chi ci aveva condiviso o caricato file in modo del tutto legale – secondo quale paese, non è chiaro.

Un altro aspetto abbastanza divertente della faccenda è che Schmitz non è cittadino statunitense, non ha mai messo piede negli Stati Uniti, l’azienda a cui viene fattivamente contestata la violazione di una legge che non esiste non aveva sede né legale né fisica negli Stati Uniti, e lui non ha mai fatto direttamente affari con gli Stati Uniti. Però gli Stati Uniti lo reclamano, hanno richiesto ed ottenuto l’estradizione dalla Nuova Zelanda, il provvedimento è stato impugnato dall’interessato ed ancora non si è giunti ad una decisione definitiva, e di conseguenza gli USA lo hanno bollato come fuggitivo.

Ricapitoliamo: io me ne sto nel mio paese, faccio il mio lavoro (eticamente discutibile, di dubbia legalità, ma non è questo il punto), ad un certo punto arriva uno stato terzo che non è né quello in cui risiedo, né quello in cui dimoro, né quello di cui sono cittadino, né quello in cui hanno sede le mie attività, chiude tutto da remoto, si impossessa di materiale potenzialmente sensibile, sostiene che ho commesso delle violazioni non contemplate dalle sue leggi, chiede che io venga estradato per essere processato e, mentre la procedura per l’estradizione, da me legittimamente contestata, va avanti, mi considera un fuggitivo. La mia domanda, quella che mi aiuterebbe a capire meglio la faccenda, è: se un comportamento del genere fosse tenuto non dagli Stati Uniti, ma da paesi come la Corea del Nord, l’Iran, Cuba o la Russia, magari contro un cittadino o addirittura un’impresa statunitense, quanti morti civili nelle rispettive popolazioni si sarebbero conteggiati finora?

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Il segreto di Pulcinella

12 mercoledì Nov 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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America, Berlusconi, cialtroni, coerenza, coscienza, Di Matteo, Fatto quotidiano, Giorgio Napolitano, informazione, Ingroia, ISIS, Italia, italiani, mafia, Marco Travaglio, Napolitano, news, notizie, Renzi, renzismo, Silvio Berlusconi, stampa, Talebani, trattativa, Travaglio, Ucraina

Un concetto il cui funzionamento tra gli italiani proprio mi sfugge è quello della presa di coscienza. Si passa di botto dalla negazione della realtà all’amara consapevolezza che le cose stanno in un certo modo e nessuno può farci niente. La faccenda è particolarmente divertente se vista con gli occhi di chi si informa e cerca anche di diffondere consapevolezza, che viene prima trattato come un ossessionato visionario, poi, dalla sera alla mattina, come un monotematico che parla sempre delle stesse cose, oramai scontate e risapute. La fase in cui questo povero tizio ha ragione non esiste.

Prendiamo la faccenda Berlusconi. Per anni, a partire diciamo dal 2001, il suo essere un delinquente abituale, probabilmente legato con la mafia e certamente con ambienti e personaggi lontani da un concetto accettabile di legalità ed onorabilità, è stato raccontato da un certo numero di personaggi, il più noto dei quali è probabilmente Marco Travaglio, ma la lista è davvero lunga – più o meno i tre quarti dell’attuale redazione del Fatto Quotidiano più una serie di altri individui legati all’informazione, se vogliamo limitarci a personaggi pubblici. Dall’altra parte c’era una reazione di rifiuto, a cominciare dai presunti avversari politici, che continuavano a ripetere che si poteva dialogare con lui, che magari non era un sant’uomo ma nemmeno quello che questi spargitori di fango professionisti dicevano, e che comunque non era mai stato condannato in via definitiva. Poi è venuto fuori di tutto, dalle mignotte alla prostituzione minorile, e si è finalmente giunti ad una condanna per frode fiscale. A quel punto la versione è cambiata radicalmente: “eh, ma lo sapevamo chi era”.

Adesso è il turno della cosiddetta trattativa tra stato e mafia dei primi anni novanta. Per anni abbiamo avuto chi l’ha raccontata sulla base di una serie di testimonianze e ricostruzioni, facendo i nomi dei personaggi coinvolti, tra i quali Nicola Mancino, e chi ha negato furiosamente queste ricostruzioni, ovviamente difendendo persone che hanno ricoperto o ricoprono tuttora incarichi istituzionali, dunque immaginare possano esser stati coinvolti in affari così loschi è disturbante, e dando a chi ne parlava dei fissati paranoici. Ingroia era un disturbato mentale, Di Matteo un mitomane (il fatto che Riina lo minacciasse di morte dal carcere veniva opportunamente taciuto), i giornalisti erano i soliti manettari. Poi Napolitano è stato costretto a testimoniare nel processo istituito dai due pazzi alla ricerca di notorietà, ed improvvisamente la trattativa è diventato un qualcosa che sapevano tutti: certo che c’è stata una trattativa, cosa ci aspettavamo?

Sviluppi analoghi, molto più in piccolo, si stanno verificando sul caso ISIS – in cui prima dire che gli americani avevano appoggiato, probabilmente finanziato ed addestrato, lo Stato Islamico era da tarati prevenuti, poi è saltato fuori che gente come McCain se ne vantava in televisione ed eccoci che improvvisamente è sempre stato ovvio che gli americani stavano con i fondamentalisti, d’altra parte avevano finaziato pure i Talebani – e, molto lentamente, con la guerra civile in Ucraina – dove sono sette mesi che chi vuole sa perfettamente che Kiev, appoggiata da Obama, bombarda la popolazione civile nell’est del paese, che Putin non ha mai inviato un solo soldato oltre confine, anzi ha fatto quello che ha potuto per non dare pretesti a Poroschenko cercando nel frattempo di dare una mano agli sfollati, e che il vero problema è il controllo dei gasdotti verso l’Europa, attualmente nelle mani di un governo filoeuropeo ma anche filonazista.

Ora che piano piano si sta incrinando anche il rapporto di Renzi con la popolazione e, soprattutto, con la stampa, qualcuno forse riuscirà a prendere coscienza che il premier è uno squallido arrivista convinto di sapere tutto e di poter fare tutto in prima persona perché, dice, la gente lo ha votato, ha come unica molla l’ambizione personale, e porta avanti una politica economica di liberismo reaganiano anni Ottanta fingendo di essere schierato ideologicamente a sinistra. Attendiamo con pazienza e prepariamoci: quando avverrà, sarà sempre stato evidente a tutti che Renzi è uno stronzo.

Io metto le mani avanti: che lo muovesse solo la carriera l’avevo capito, ma pensavo che fosse interessato a combinare qualcosa, non solo a diventare qualcosa. E credevo fosse più disposto a rinunciare ai leccapiedi.

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