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Archivi tag: anni novanta

Irlanda

16 martedì Gen 2018

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Fingersi esperti di musica

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Achtung baby, addio, anni 90, anni novanta, Bono, britpop, Celti, costume e società, Cranberries, Dolore O'Riordan, Dublino, Eire, Enya, folk, indie, indie rock, Inghilterra, IRA, Irlanda, Limerick, musica, musica celtica, musica folk, musica pop, musica rock, O'Riordan, politica, pop, pop-rock, RIP, rock, Roddy Doyle, società, storia, storia contemporanea, The Commitments, The Edge, The Fly, U2, Ulster, Zombie, Zoo TV

Era un po’ che pensavo di scrivere questo articolo: mi ritrovo a farlo oggi, per commemorare la povera Dolores O’Riordan e ricordare perché una come lei è stata una presenza fondamentale per la mia generazione.

Per chi c’era e se lo ricorda o per chi se lo è fatto raccontare, verso la metà degli anni Novanta improvvisamente ha cominciato ad andare di moda l’Irlanda. Dublino e le coste atlantiche dell’Eire hanno iniziato di colpo ad esercitare un fascino enorme su tutta Europa e tutti volevano, dovevano andarci. Ovviamente non era sempre stato così. L’Irlanda, fino a pochi anni prima, veniva vista da un lato come un paese povero, dall’altro come un luogo pieno di problemi, con l’Ulster e l’IRA, con la gente armata per strada ed i combattenti cattolici che mettevano le bombe nei locali di Londra.

Gli irlandesi più famosi del mondo, all’epoca, erano ovviamente gli U2: una band al culmine della fama, che veniva dritta dal capolavoro berlinese “Achtung baby” e dallo Zoo TV, da due anni di tournée trionfale e magnificente negli stadi di tutto il mondo, incarnati dal personaggio di The Fly, quasi un extraterrestre, che negli ultimi anni si era messo metaforicamente sulle barricate contro la guerra nella ex Jugoslavia e che in passato aveva celebrato personaggi come Martin Luther King e cantato la povertà negli Stati Uniti sotto Reagan.

Per il resto, l’Irlanda era una provincia dell’impero, dove si parlava più o meno la stessa lingua dell’impero, ma per il resto non diversa dall’Italia o dalla Spagna. Gli stessi U2 erano emersi in realtà dalla narrazione dell’Irlanda problematica, con brani anagraficamente vecchi più di un decennio ma spesso riproposti come “Sunday bloddy sunday” e “New year’s day”.

A contribuire al successo dell’Irlanda, allo svecchiamento della sua immagine di paese povero e violento, per dipingerlo come luogo attraente e pieno di opportunità, era stato in primo luogo, a livello vagamente elitario, “The Commitments” – parlo del film, tanti di quelli che lo magnificavano nemmeno sapevano che era stato tratto da un romanzo di Roddy Doyle – in cui gli irlandesi si identificavano come “i neri d’Europa” e come tali suonavano la musica delle classi lavoratrici, il soul, e si ponevano come dei giovani alla ricerca di uno sbocco in una realtà complessivamente povera, ma umanamente molto vivace. Poi era arrivata la musica: prima di tutto il folk – negli anni Novanta la musica celtica andava per la maggiore ovunque – e con esso la sua sacerdotessa indiscussa, Enya. Infine arrivò qualcun altro a cambiare tutto.

Originari di Limerick, quindi della provincia della provincia, un posto raffigurato fino a poco prima come un paese rurale ed in guerra che aveva dato l’origine di una musica evocativa e misteriosa, ecco quattro ragazzi con le facce normali ed un look ripulito che suonano un rock moderno e gradevole, con le influenze di Bono e soprattutto The Edge perfettamente identificabili, ma diversi, personali, attuali. Era normale che il rock-pop parlasse inglese, era normale che venisse dall’Inghilterra, da Londra, da Manchester, da Liverpool; molto meno, che una musica da tutti i giorni venisse dalle campagne irlandesi, per bocca e strumenti di quattro tizi che non si ponevano come divi o come portatori di chissà quali istanze e pretese, ma come gente che cantava la propria vita, che non c’entrava niente coi Celti e con l’IRA: la stessa vita di tutti. Una vita in cui la canzone simbolo della band era un brano che parlava della tragedia dei bambini nelle zone di guerra, ma non specificatamente nella guerra dell’Ulster. Una vita come la nostra, insomma.

Per cui ecco che improvvisamente l’Irlanda non era più il paese delle bombe e dei Celti, di una ninfa irraggiungibile e di un alieno infallibile: era un paese come tutti, in cui si poteva partire da una pagina bianca per parlare e dire qualsiasi cosa, in cui quattro tizi dall’aria timida capitanati da una giovane donna coi capelli biondo platino ed una voce potente ed incredibilmente espressiva potevano aprire la bocca per cantare ed emozionare mezzo mondo con canzoni semplici, dirette, oneste.

I Cranberries di Dolores O’Riordan, per l’appunto: una band che ha cambiato l’immagine di un intero paese praticamente da sola. E pensare che c’è chi dice che la musica non ha nessuna vera valenza politica.

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Sarah makes it better

04 venerdì Dic 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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anni duemila, anni novanta, britpop, canzoni, Client, Command, Disgraceful, Dubstar, elettro-pop, erotismo, Goodbye, Heartland, Lights go out, Make it better, musica, Nineties, pop, Pornography, Sarah Blackwood, sensualità, Stars, vocalist, voce

Esattamente queste parole, “Sarah makes it better”, si ripetono un paio di volte nel bridge che collega strofe e ritornello in “Stay”, traccia numero 5 e di fatto title track del terzo album dei Dubstar, per l’appunto “Make it better”, del 2000. Io conosco i Dubstar dal 1995, da pezzi sensuali e lascivi come “Stars” e “Not so manic now”, ed ascoltai per la prima volta “Stay” quando avevo una cotta non precisamente corrisposta per una tizia che si chiamava Sara, quindi non è che mi facesse particolarmente bene sentirla.

Sarah BlackwoodMa chi è Sarah? Sarah è Sarah Blackwood, classe 1971, vocalist della band, che evidentemente parla di sé stessa in terza persona. Inglese fino al midollo ed oltre, bionda, capello corto, espressione vagamente fredda ed irridente, ha un accento britannico che si percepisce in modo distinto anche sentendole cantare solo un paio di versi.

E cos’è che fa meglio? Beh, qui il discorso si fa più complesso.

Sarah, col suo cantato tra lo sprezzante ed il sensuale, riesce ad imprimere una fortissima personalizzazione alle sue canzoni, riuscendo peraltro anche a muoversi in registri diversi, dalla desolata rassegnazione alla dolcezza, dall’erotismo alle coccole. Fu la leader appunto dei Dubstar dalla nascita del gruppo, voce solista multicolore in tre dischi molto diversi, da un debutto (“Disgraceful”) con basi elettroniche invasive e chitarre a due dischi più suonati, il primo (“Goodbye”), lungo ed un po’ discontinuo ma costellato di gemme, i primi cinque pezzi (tra cui i superbi esempi di hit pop “No more talk” e “I will be your girlffiend“) ma soprattutto la straordinaria e desolante, ma sempre con una punta di impertinente ironia, “It’s over” (“I’ll face the ending, one message sent, it’s over; no more efforts, no more lies, it’s over”), il secondo breve e sintetico, con pezzi scanzonati (“I’m conscious of myself”, in cui Sarah chiede insistentemente “don’t you just love my ass?”) e riflessivi (“The self same thing”) ed un finale tenero e poetico che vale una carriera (“Swansong”), dopo il quale la band si prese una pausa. L’ottima miss Blackwood si riciclò allora con una band interamente femminile, le Client – inizialmente un duo, poi un terzetto con l’ingresso di una bassista, tra l’altro una ex modella con un metro di gambe.

Dal brit-pop lato elettronico all’elettro-pop vero e proprio, da una band incentrata sulla sua sensualità ad una con un taglio vagamente fetish ed in cui l’aspetto erotico era molto più che vagamente suggerito e lasciato al semplice cantato ed a qualche testo ironicamente spinto, ma demandato ad un sound più torbido e ad un approccio più sfrontato, a cominciare da un’immagine curiosa, basata su uniformi dai toni metallizzati con tacchi alti, abiti corti e guanti fin sopra i gomiti. Musica semplice, diretta, pochi fronzoli e molte linee semplici ed accattivanti, testi diretti ma mai espliciti, al contrario di quello che vuole una fama che non corrisponde al vero, probabilmente alimentata dal look molto più che da un ascolto anche solo vagamente attento, oltre che dal fatto che uno dei primi singoli della band si intitolasse “Pornography”. Brani multicolori ma sempre un po’ tesi, da quelli più spasmodici (“Lights go out”, “Can you feel”) a quelli più languidi (“Someone to hurt”, “It’s not over”), ma sempre frizzanti e godibili, e sempre con il cantato lascivo e morbido di miss Blackwood, qui molto diversa rispetto a quando era nei Dubstar, ma sempre ottima e terribilmente intrigante.

E quindi siamo arrivati alla risposta: Cos’è che Sarah fa meglio? Il pop, quello languido e sensuale. Poi magari fa meglio anche altro, ma quello purtroppo non lo so.

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Lauryn Hill @ Cavea, auditorium Parco della Musica, 13/7/2015

21 martedì Lug 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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anni novanta, ansia, auditorium, bellezza, Bob Marley, Cat Power, Cavea, concerto, Doo wop, emotività, emozione, Ex-factor, Fugees, fuoriclasse, hip-hop, Lauryn Hill, live, Lost ones, Luglio suona bene, musica, Nineties, Parco della Musica, reggae, The Miseducation of Lauryn Hill, To Zion, voce

Non ho scritto niente dopo il concerto di Lauryn Hill della settimana scorsa per due ragioni, una concreta ed una un po’ più riflessiva. Quella concreta è che martedì mattina sono partito per una breve vacanza e non ho avuto tempo; quella riflessiva è che dovevo interiorizzare bene quello che era successo prima di poter esprimere delle opinioni argomentate.

La prima cosa che voglio sottolineare è che trovo inconcepibile come l’auditorium Parco della Musica non sia capace di offrire una qualità audio comparabile con quella di altre sedi di concerti estivi all’aperto come villa Ada o Eutropia. Una volta l’audio era buono ma basso, poi due anni fa c’è stato il Grande Disastro di Cat Power e si è passati ad un approccio diverso, che comprende un palco sensato ed un’amplificazione molto più potente, che però i tecnici evidentemente non sanno gestire: le casse sono poche e sfruttate al massimo, ad un livello che non sono in grado di sostenere con efficienza, alcuni suoni quasi scompaiono ed a volte è difficile distinguere i vari strumenti. Che una cosa del genere avvenga in un auditorium che fa pagare i biglietti della tribuna posticcia 40 euro è inammissibile, a maggior ragione se si considera che il problema non si verifica al Circolo degli Artisti – un tubo, peraltro col soffitto basso ed una parete di mattoni. Ricordo che il Circolo degli Artisti è chiuso: l’auditorium contattasse i fonici che ci lavoravano, loro sanno come amplificare un concerto rock.

Passiamo al pubblico: cavea strapiena, biglietti esauriti da tempo. Temevo un po’ l’effetto grande nome, e mi sbagliavo: persone entusiaste, estasiate di trovarsi davanti Lauryn Hill, proprio lei, che cantava i suoi classici. Davanti ai suoi capolavori, pezzi come “Lost ones”, “Ready or not”, “Doo-wop (that thing)”, “To Zion”, sono partiti dei boati che hanno fatto letteralmente tremare la terra, un delirio collettivo fantastico e contagioso. Bellissimo averne fatto parte.

Il concerto. Lauryn Hill si è presentata sul palco accompagnata da un esercito: batteria, basso, chitarra, tastiera, dj, tre ottoni e tre coriste. All’inizio ha imbracciato una chitarra acustica, si è seduta e si è dedicata ad omaggi, cover e qualche pezzo dal suo Unplugged. In alcuni casi brani strepitosi, cantati tuttavia con una voce un po’ strozzata, come se lei non ne avesse, o, più probabilmente, non fosse sicura di averne. Anche i continui conciliaboli con la band, talvolta anche durante le esecuzioni, hanno dato l’idea che ci fosse qualcosa che non la convinceva. Sembrava quasi che il concerto non fosse stato preparato a dovere, o quantomeno che lei lo percepisse come tale.

Dopo circa tre quarti d’ora Lauryn si è alzata, e, dopo una strana versione reggae di “Ex-factor”, il dj ha preso possesso della console e lei ha attaccato “Lost ones” (“it’s funny how money changes situations…”), che ha scatenato un’ovazione pazzesca, dando inizio alla panoramica dei suoi successi veri. Qui la voce si è fatta decisamente più sicura, più estesa, più rilassata, rafforzando l’idea della mancanza di fiducia della prima parte. Stessa cosa quando ha attaccato una serie di tre cover di Bob Marley, cominciando con “Jammin’”, accolta dal pubblico con un boato impressionante. Alla fine, su “To Zion” e “Doo wop (that thing)”, Lauryn si è addirittura concessa qualche acuto, come a ricordarci quello che la sua voce era davvero, e che probabilmente sarebbe ancora, se lei fosse capace di sentirsi a suo agio sul palco.

Un concerto, soprattutto nella seconda parte, davvero imperdibile per chi Lauryn Hill l’ha amata negli anni novanta: un po’ celebrativo, ma è stato davvero entusiasmante vederla e sentirla rifare pezzi ben fissati nella memoria emotiva di quasi tutti i presenti – soprattutto nella mia – all’interno di una serata musicalmente comunque superba. Lauryn Hill è una fuoriclasse vera, cristallina, immensa, si capisce anche guardandola così, in un’esibizione in cui le ferite inflittele dallo star system sono ancora palesi, perché la luce accecante dietro l’atteggiamento difensivo e prudente si percepisce nitidamente, ed ogni tanto esplode.

Speriamo abbia il coraggio di tornare ad usarla come guida.

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Once in a lifetime – parte 2

27 lunedì Apr 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Ciarlare a vanvera, Fingersi esperti di musica

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anni novanta, auditorium, Biophilia, Björk, Cavea, concerti, Dancer in the dark, Debut, Homogenic, live, Medulla, musica, musica dal vivo, musica elettronica, Nineties, Parco della Musica, Post, Roma, Selma songs, trip-hop, Vespertine, Volta

Bjork - DebutNel 1993 sotto casa mia c’era un piccolo negozio che affittava CD ed io, da buon melomane in erba, ne ero cliente affezionato. Un giorno d’estate, dietro consiglio del proprietario, portai a casa il disco che lui stesso stava ascoltando nello stereo del locale, un disco apparentemente elettro-pop con venature dance di una strana tizia con gli occhi a mandorla ed un nome strano, che in realtà nascondeva molto altro. Era “Debut”, primo disco solista di Björk.

A casa, mi innamorai immediatamente di “Play dead”, poi vennero “Aerolpane”, “Venus as a boy”, “One day” e “There’s more to life than this”.

Due anni dopo, comprai “Post” quando da Ricordi lo stavano ancora sistemando sugli scaffali. Adorai “Hyperballad”, “Enjoy”, “Isobel” e “Headphones”, ed in autunno guardai con curiosità l’improvvisa notorietà planetaria di questo strano folletto dovuta al video di “It’s oh so quiet”, che rappresentava una sintesi della sua musica quanto il piano Marshall rappresenta una sintesi della storia degli Stati Uniti.

Seguì “Homogenic”, quello di “Joga”, “Bachelorette”, “Unravel” e “All is full of love”, che sul disco è un gioiello desolante, un agghiacciante grido nel vuoto che non ha niente a che vedere col trip-hop, quindi fu il turno di “Selmasongs” (“I’ve seen it all” con Thom Yorke, “New world”, ma anche la sconcertante “107 steps”) e di “Dancer in the dark”, un film bellissimo ed irripetibile – nel senso che dopo averlo visto una volta, dopo aver visto la povera Selma/Björk impiccata mentre canta, col cuore che si ferma e fa partire i titoli di coda, davvero, basta.

Arrivò poi l’orribile video di “Hidden place”, pezzo sontuoso, eterno, impossibile, ed arrivò “Vespertine”, che fu portato in tournée con un’orchestra sinfonica, un duo di musica elettronica, un coro inuit ed un’arpista. Probabilmente il punto più alto di una carriera interamente sopra le nuvole, dove non c’è nessuno, e di un biennio irripetibile, e non per lei, proprio per l’umanità.

Punto più alto che passò per Roma, per il Teatro dell’Opera, nel novembre del 2001. I biglietti del loggione costavano 80.000 lire – cifre assurde per l’epoca, ma immagino che il concerto avesse i suoi costi, compreso l’affitto di una sala da 2500 posti non precisamente economica. Andarono esauriti in poche ore, ed io mancai la messa in vendita. La sera del concerto ero ad un compleanno e, poco prima di mezzanotte, un mio amico ricevette una telefonata da una persona che conoscevo, che gli disse di salutarmi dall’uscita del concerto, a cui aveva oltretutto assistito gratuitamente. Tanto odio.

Bjork - VulnicuraSono passati quasi 14 anni da allora. Nel frattempo nella carriera di Björk sono intervenuti i dischi live per celebrare i suoi 25 anni di musica, il discontinuo ma frizzante “Medulla” (“Oceania” e “Triumph of the heart”), l’ancor più discontinuo “Volta” (ed è un peccato, perché picchi come “Vertebrae by vertebrae”, “Wonderlust”, “Declare independance” sono strepitosi, ma brani come “The dull flame of desire” sono imperdonabili), lo strepitoso “Biophilia”, a cui ha tra l’altro fatto seguito un’altra tournée eccezionale, documentata da un DVD uscito da poco.

Adesso è il turno di “Vulnicura”, che ancora ho esplorato poco, ma che sembrerebbe essere il disco meno sperimentale da vent’anni a questa parte, anche se certo non un disco rilassante. A novembre Björk compirà 50 anni, ma prima, il 29 luglio, passerà da Roma per l’unica data italiana del tour. Si esibirà nella Cavea del Parco della Musica: i prezzi dei biglietti sono una via di mezzo tra un cazzotto in faccia con la rincorsa ed una battuta di spirito di pessimo gusto.

Dopo aver polemizzato ed ironizzato allo sfinimento per anni sui ricatti emotivi del mondo musicale e sui lobotomizzati che li subiscono senza fiatare, io sarò lì, avendo speso 57,50 euro per un biglietto nella “tribunetta alta”, e verosimilmente felice di averli spesi. La degna fine di un rompiballe.

Chiedo solo un piccolo favore: passate all’incasso uno alla volta.

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Everything But The Girl: “Amplified heart”

19 domenica Ott 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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album, Amplified heart, anni 90, anni novanta, capolavoro, CD, disco, EBTG, Everything But The Girl, indie, Missing, musica, piccolo, pop, raffinato, recensione, sottile, tormentone

EBTG - Amplified heartBuona parte di chi nel 1995-96 era già nell’età della ragione conosce gli Everything But The Girl per “Missing”, canzone passata alla radio ed in televisione – col suo videoclip notturno, in cui una donna bassa, bruttina e sgraziata camminava per le strade cittadine ripetendo “and I miss you like the deserts miss the rain” – fino alla nausea ed oltre. Immagino che a maggior ragione tra i più giovani la conoscenza della band non vada in generale oltre questo pezzo. In realtà il brano che ha più o meno sfinito mezzo mondo oramai quasi 20 anni fa non era la versione originale del pezzo, ma il “Todd Terry club mix”, una sua versione club-dance che, come buona parte dei remix fatti dai dj, ne conservava solo la traccia vocale e qualche suono a caso, sostituendo il resto con una base drum and bass e con tappeti elettronici.

“Missing” era in realtà il singolo di punta dell’ottavo album (incluso uno di cover), pubblicato nel 1994 col titolo di “Amplified heart”, di una band, o più precisamente di un duo, con una storia poco più che decennale. Come in gran parte dei grandi dischi il singolo che era destinato a farne vendere copie è un faro luminoso seppellito nella seconda metà dell’ascolto, a cui si giunge dopo 20 minuti di preparazione e che ne precede 15 di distacco. Almeno, questa è l’impressione le prime volte. Quando poi la familiarità con l’album si approfondisce, ci si accorge che non si tratta di un lungo contorno al brano con maggiore personalità, quanto che “Missing” è un raggio di luce messo in un posto magnifico, che, nel momento in cui si smette di fissare il suo intenso bagliore, consente di scoprire ed apprezzare le meraviglie che ha intorno.

Meraviglie che non sono lì per tutti, che non si stagliano nitide all’orizzonte, ma che anzi bisogna andarsi a cercare, svelare, guidati dalla luminosità del faro e dalla voglia di scovare qualcosa di insolito ed affascinante, prezioso ed intimo. “Amplified heart” è un disco che entra dentro, ma solo a chi lascia la porta aperta. Se lo si ascolta superficialmente, o se ci si aspetta lo schiaffo emotivo, ci si trova davanti un breve album di pop acustico che non esplode mai e che potrebbe andare bene, forse, come accompagnamento per la guida notturna su strade semideserte ma illuminate o come didascalia su immagini nottune e distaccate della metropoli caotica e luminosa.

Se invece ci si arma di pazienza, curiosità e voglia di lasciarsi trascinare, si incontrano tante e quasi intangibili gemme eleganti, raffinate e soffuse, gli inglesi dicono smooth, e davvero mi riesce difficile immaginare una definizione migliore. Brevi e minute perle che non hanno nessun bisogno di esplodere perché quello che vogliono non è imporsi ed urlare, ma incantare, cullare e raccontare, cantate con una voce tranquilla eppure emozionata ed emozionante, mai sopra le righe, mai alla ricerca dell’applauso, sempre dolce ed avvolgente, spesso un po’ triste e malinconica.

“Amplified heart” è uno dei migliori dischi degli anni Novanta. Curiosamente, un disco quasi acustico, nel decennio che ha contribuito a definire preziosissimi standard per l’elettronica. È sbagliato definirlo, come io stesso ho fatto qualche tempo fa su Twitter, uno dei più grandi, perché qui la grandezza non c’entra niente, anzi, si tratta di un disco fieramente e magnificamente piccolo – a partire dalla durata, sebbene non sia ovviamente quello il punto, ma il senso della misura si vede anche da questo. Un album da ascoltare e scoprire, volta per volta, impressione dopo impressione. Poi non tutti ci troveranno le gemme, ma, francamente, peggio per loro.

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EMA @ Circolo degli Artisti, Roma

28 mercoledì Mag 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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anni novanta, Circolo degli Artisti, Colleen Green, concerto, EMA, Erika M. Anderson, indie, live, musica, musica dal vivo, musica indie, musica indipendente, The future is void

Lunedì 26 maggio al Circolo degli Artisti c’era il concerto di una strana tizia dell’universo indie americano, tale EMA (è un acronimo formato dalle iniziali del suo nome, Erika M. Anderson). Ora, io non ho amici particolarmente sensibili a questo genere di eventi, o almeno non lo erano nell’occasione, e non lo saranno sabato per i Samaris, quindi il dubbio era se andarci da solo o soprassedere. Alla fine sono andato.

L’appunto da muovere al Circolo riguarda la gestione degli orari: quello che adesso si chiama special guest e che una volta era noto col nome di supporto ha iniziato l’esibizione alle dieci passate, di lunedì sera una scelta singolare. A maggior ragione quando l’artista di punta della serata è una che ha vissuto l’adolescenza negli anni Novanta e si dichiara seguace di alcuni movimenti culturali del periodo, quindi il concerto non era rivolto a liceali od universitari, ed industriarsi per farlo finire dopo la mezzanotte rasenta il suicidio.

Colleen Green è salita sul palco da sola con abbigliamento minimale ed una chitarra elettrica sporca ed effettata. Dopo un primo brano in cui ha usato solo quella ha iniziato ad armeggiare con delle basi. La voce non era molto amplificata, ma c’era. Leggermente nasale, controllata e vagamente sforzata, ma se l’è cavata bene – e comunque, una tizia che fa da supporto da sola ad un concerto con un centinaio di paganti merita tanto, tanto rispetto. Esibizione gradevole, Colleen emozionata ma efficace, ragazza da approfondire.
Pausa, con tre tizi che provano gli strumenti per un po’, poi escono e rientrano: per questo motivo all’inizio pochi capiscono che il concerto è cominciato. Dopo un minuto entra una tizia bionda, alta e possente che prende una chitarra, si piazza davanti al microfono ed inizia a cantare. La voce è roca e nuovamente un po’ soffocata, ma la personalità si capisce subito.

Niente orpelli, niente abbellimenti, niente fronzoli: EMA è una che su un palco ci sa stare e le basta suonare e cantare per trascinare dietro di sé tutto quello che ha davanti. È accompagnata da tre musicisti: una bassista che a volte suona la chitarra, un tastierista che a volte prende basso o chitarra (tutta questa rotazione di strumenti a corda parcheggiati in giro per il palco a volte risulta un po’ goffa, ma dal punto di vista sonoro non ci sono problemi) ed un batterista che comincia piano, ma quando serve fa vedere di che cosa è capace. Pubblico numericamente modesto ma coinvolto e coinvolgente.

Io sono solitamente attratto dalla musica un po’ scura e malinconica. Questo caso è una parziale eccezione, perché le tinte fosche ci sono. Quello che manca è la malinconia: qui stiamo molto più dalle parti del dramma. Brani forti, potenti, emotivamente trascinanti, di grande spessore drammatico. L’approccio strumentale (basso, batteria, chitarra, tastiere) è rock, ma il retroterra indie emerge nelle sonorità in modo netto ed efficace.

Una considerazione: l’ultimo disco di EMA, “The future is void” ha un difetto, è scarsamente unitario dal punto di vista stilistico, è un po’ discontinuo. Dal vivo tutto ciò sparisce all’istante: EMA è lì che suona e canta, “here and now” direbbe Kay Hanley (parlando di indie e nineties), un pezzo dopo l’altro, ed è eccelsa nel tirare fuori un concerto perfetto e coerente. Non ci sono pause, non ci sono discontinuità, c’è solo un’espressione di sé, continua e bellissima. Se cantasse “Let’s spend the night together” degli Stones sarebbe tranquillamente capace di inserirla nel contesto emotivo e renderla un pezzo suo, almeno per quei 5 minuti. Se non è brava una così…

Il concerto dura poco più di un’ora, compreso un unico bis per voce e chitarra, forse l’unica vera pecca della serata, che ci impedisce di salutare adeguatamente una band solida e capace. Una chiusura col botto avrebbe fatto più effetto.

Dopo la conclusione, la bassista va al banchetto a vendere CD, LP, magliette e, incredibilmente, cassette, dicendo alla gente di aspettare: Erika verrà ad autografare il materiale appena possibile. Cosa che accade un paio di minuti dopo, ma EMA non si limita a firmare le copertine: chiacchiera, interagisce, chiede pareri, è disponibilissima. Nel frattempo Colleen Green vende il suo materiale (LP, EP e cassetta fatta in casa, niente CD) direttamente, a testa bassa, dimessa, uno si chiede come abbia avuto la forza di andare da sola sul palco ad esibirsi. Fa tenerezza, è quasi sorpresa quando qualcuno va a parlare con lei.

Gran bella serata.

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