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Quando Harry e Sally incontrano Nolan

28 mercoledì Dic 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema

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ambientazione, Argo, Billy Crystal, Blues Brothers, Carrie Fisher, Central Park, cinema, classici, commedia, Cristopher Nolan, dialoghi, film, fotografia, Guerre Stellari, Harry ti presento Sally, immagini, Inception, Interstellar, Meg Ryan, narrativa, New York, Nolan, Nora Ephron, regia, ritmo, sceneggiatura, Star Wars, umorismo

leia-e-jabbaIeri, per chi non se ne fosse accorto, è morta Carrie Fisher. Per chi abbia vissuto gli ultimi 40 anni dentro una campana di vetro, Carrie Fisher è stato il volto della principessa Leia (per qualche oscuro motivo, Leila in italiano) della trilogia originale di “Guerre Stellari”; e poi non molto altro, a causa di grossi problemi di tossicodipendenza. Tra i ruoli più interessanti interpretati dalla povera Carrie, si annoverano comunque due personaggi straordinari in due pellicole memorabili: la fidanzata mollata sull’altare da Jake/John Belushi, che cerca per tutta la durata del film di ammazzare lui e suo fratello Elwood, tra l’altro con metodi sempre più spettacolari, su “The Blues brothers” e l’amica del cuore di Sally, quella che nella fantastica cena a quattro avrebbe dovuto intrattenere Harry mentre Sally cercava di legare con Jess, su “Harry, ti presento Sally”.

Ieri sera mi sono dunque concesso una serata commemorativa, ed, invece di riguardare “Il ritorno dello Jedi”, con Carrie Fisher mezza nuda prigioniera di Jabba The Hutt, ho rivisto la pellicola sceneggiata da Nora Ephron nel 1989. Un piccolo capolavoro sui rapporti tra uomini e donne, con dei dialoghi fenomenali, una fotografia elegantissima ed in generale una realizzazione superba.

Ora, ogni tanto mi capita, per lo più mio malgrado o pentendomene amaramente, di guardare qualche film hollywoodiano degli ultimi anni. A volte degli action movie, altre volte opere diverse, commedie, drammi, in generale pellicole di narrativa. E qualsiasi confronto con un caposaldo di oramai quasi 30 anni fa, non è solo sfavorevole: è impietoso.

harry-ti-presento-sally“Harry, ti presento Sally” è un film breve, dura poco più di un’ora e mezza. Non ha particolari fuochi artificiali grafici, fatta eccezione per l’ambientazione in una New York bellissima, soprattutto nelle scene autunnali (non a caso una è stata scelta per la copertina del dvd). Non ci sono scene di sesso, di nudo e neanche di mezzo nudo, Meg Ryan è completamente vestita per tutto il film. È praticamente un’opera teatrale, con in più una scenografia spettacolare e dei colori favolosi. La sceneggiatura è tra le più brillanti ed intelligenti mai scritte. I due personaggi centrali sono meravigliosi – lui un cinico che si ritiene molto profondo, lei una che ce la mette tutta per essere perfetta e, quando è stuzzicata, va immediatamente sulla difensiva. I dialoghi sono realistici ma inframmezzati da battute fulminanti (tutti ricordano la scena in cui Sally finge l’orgasmo in un bar e la strepitosa chiosa finale della cliente, ma il battibecco che ce la porta è altrettanto superlativo), il ritmo è serrato, nessuna scena inutile o inutilmente dilatata, il film non si ferma mai ad osservarsi o a cercare l’applauso, finita una scena memorabile passa a quella successiva. La storia nel suo complesso è abbastanza prevedibile, eppure non c’è un momento in cui, anche alla quinta visione del film, si abbia voglia di distrarsi. Soprattutto, non solo non richiede di spegnere il cervello, ma è proprio al cervello che parla, che è rivolto.

Stiamo parlando di un pilastro del cinema, va benissimo. Ma il confronto, non dico con pellicole modeste, tipo le già citate su queste pagine “Interstellar” o “Argo”, ma anche con film complessivamente riusciti come “Inception” o l’ottimo “The imitation game” (che peraltro è inglese) è imbarazzante. Film con idee interessanti, ben realizzati e molto ben infiocchettati, ma sempre rallentati da scene inutilmente lunghe e da una suspence fittizia, impoveriti da dialoghi ingessati e didascalici, finti nella loro disperata ricerca del colpo ad effetto. Una pena stratosferica, di fronte ad un’opera che racconta la semplice storia di due persone normali, perfettamente delineate ed inserite in uno specifico contesto sociale. Una pena ancora maggiore, se si considera quanto possa riempire gli occhi Central Park in autunno (ma vale lo stesso, che so, per i South Banks londinesi di “Love Actually” e per il Montmartre di “Il favoloso mondo di Amélie”), a paragone con i fuochi artificiali tipo gli esopianeti ed il buco nero di “Interstellar” (per quello che mi riguarda, entrambi sotto le aspettative, comunque), la Parigi che si ribalta di “Inception” o i pezzi di città che volano dei vari “X-Men”.

Sarà che sto invecchiando.

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Eduardo Mendoza: “El misterio de la cripta embrujada”

11 giovedì Dic 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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assurdo, Barcellona, comico, commedia, detective, Eduardo Mendoza, El misterio de la cripta embrujada, giallo, grottesco, letteratura, libro, romanzo, Spagna, spagnolo, surreale, trivio

Misterio Cripta Embrujada MendozaA volte per leggere un libro godibile è necessario passare sopra ad una certa quantità di dettagli, che poi tanto dettagli non sono, roba di fronte alla quale la maggior parte dei lettori fuggirebbe urlando.

Cominciamo dal pretesto letterario: siamo nella Barcellona degli anni Settanta, qualche anno dopo la fine del Franchismo. A seguito della sparizione di una studentessa da un collegio religioso avvenuta con modalità analoghe a quanto successo anni prima in una storia che aveva avuto una conclusione assurda (la ragazza si era materializzata nel suo letto due giorni dopo senza alcuna memoria dell’accaduto), l’ispettore di polizia incaricato delle indagini decide di avvalersi dell’aiuto di un collaboratore privo di senso: l’ospite di un manicomio. Questi, l’io narrante del romanzo, è in realtà una specie di teppistello con la fedina penale lunga un chilometro, un passato allucinante ed un temperamento che non si abbatte di fronte a nulla. Si noti che detto teppistello non ha niente a che spartire con nulla di quanto riguardi il caso presente o quello passato e viene tirato in ballo senza alcuna ragione logica, non gli viene dato nessun tipo di supporto, nemmeno una peseta o un posto dove dormire (anzi, viene prelevato dal sanatorio durante una partita di calcio tra degenti, trafelato e puzzolente, e sbattuto per strada) e gli viene chiesto di risolvere il caso indagando nel torbido, ma senza mai entrare nemmeno in contatto con nessuno dei personaggi a vario titolo coinvolti nella faccenda.

Continuiamo con lo sviluppo: per buona parte della prima metà del libro il nostro eroe, quando parla fuori campo o è lasciato libero di esprimersi, si lancia in soliloqui prolissi e sconclusionati che non si capisce dove vadano a parare. Quando interagisce, tenta senza successo di fare lo splendido o lo spiritoso, e si caccia in una quantità enorme di situazioni ridicole ed imbarazzanti, talvolta di proposito, con un atteggiamento ai limiti dell’irritante. Inoltre si ritrova ad un certo punto perseguitato da un morto, ma non in senso figurato o come fantasma, proprio da un cadavere che inizia a comparire dappertutto, al punto che il lettore si chiede se non si è perso qualcosa. In tutto ciò, commette una collezione spropositata, per numero e varietà, di reati – che peraltro di solito rappresentano il piano B per uscire da qualche situazione, stabilito che il fallimentare piano A era qualcosa di grottesco ed irrealizzabile.

Come si vede, i motivi per depositare questo romanzo nel posto che parrebbe competergli – lo scaffale della libreria che lo vende, o, nel malaugurato caso lo si sia già comprato, il più vicino cassonetto per il riciclo della carta – non mancano. E invece sarebbe un errore. Sarebbe un errore perché il libro acquista via via ritmo e brillantezza. Man mano che, pur da una posizione ingestibile, il nostro si cala nella parte del cugino sfigato e mentalmente instabile di Marlowe, la sua coerenza e la sua lucidità aumentano e diventano dei veri fari guida nell’intricato pasticcio in cui è stato cacciato. Il Poirot dei poveri e degli schizofrenici annusa una balla lontano un chilometro, manipola, indaga, depista la polizia, se ne infischia dei divieti impostigli, compie deduzioni, trae conclusioni e sbeffeggia tutto quello che gli capita a tiro, a cominciare ovviamente da sé stesso.

Il tutto per arrivare ad una conclusione che non sarà il massimo dell’originalità, ma sta in piedi in modo perfettamente coerente e consente anche un po’ di satira sociale, all’inizio particolarmente feroce, poi quando le cose diventano più chiare in modo più amaro e rassegnato, anche se pur sempre con un approccio surreale e comico, supportato da un linguaggio colorito a volte irresistibile.

Ce n’è davvero per tutti, ed è difficile trovare qualcuno che si salvi, sicuramente dagli sberleffi, ma probabilmente anche da un’analisi più profonda. Un libro godibilissimo.

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Smetto quando voglio

26 martedì Ago 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema

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Boris, capolavoro, cialtroni, cinema, cinema italiano, commedia, film, genio, Italia, Libero De Rienzo, Pietro Sermonti, ricercatori, satira, smart drugs, Smetto quando voglio, Stanis, università

Smetto quando voglioQualche sera fa sono stato coinvolto da amici in una serata a Castel Sant’Angelo con cena e cinema all’aperto. Quando mi hanno proposto il film, “Smetto quando voglio” ho tentennato, poi ho deciso di andare, anche perché l’alternativa era restare a casa.

C’è da dire preliminarmente che abbiamo perso i primi 10 minuti di pellicola perché lo stand presso il quale abbiamo cenato è andato nel pallone per friggere qualcosa come 6 o 7 piatti con i tavoli quasi tutti vuoti, finché ad un certo punto, mentre noi aspettavamo che le ordinazioni venissero evase, cosa che avveniva con una lentezza esasperante ed una cadenza singolare, il gestore ha pensato bene di chiudere temporaneamente la cassa per sopraggiunta congestione della cucina con 10 piatti da preparare: quindi lì per lì non ho avuto modo di apprezzare (lacuna colmata in seguito) la magnifica scenetta iniziale del barone squallido e approssimativo che se ne frega di quello che gli succede attorno, con particolare riferimento alla carriera dei suoi sottoposti, e pensa solo a chiedere e distribuire favori – cosa quest’ultima che non è in grado di fare, almeno come vorrebbe lui. Inoltre, a causa del fatto che il cinema aveva venduto più biglietti dei posti disponibili, abbiamo assistito alla proiezione appollaiati su un muretto laterale, il che magari è risultato poco comodo, ma ci ha consentito di commentare e parlottare per tutta la durata della visione senza dare fastidio a nessuno. C’è stato anche l’increscioso incidente di un’amica che a pochi minuti dalla fine si è lanciata da detto muretto finendo lunga distesa per terra, fortunatamente senza conseguenze, perché aveva visto un topo, ma questa è un’altra storia.

Per ambientare culturalmente il film, diciamo che appartiene al produttivo ed interessante filone cinematografico italiano che potrei definire post-Boris: opere, per lo più commedie, solitamente molto intelligenti, come direbbe Stanis poco italiane (nel senso della realizzazione, le storie invece raccontano perfettamente l’Italia), in cui attorno al protagonista, solitamente un nome di un qualche livello, ruotano alcuni attori usciti dalla spettacolare serie tv italiana di qualche anno fa. In questo caso, si tratta di Stanis, Biascica e uno dei tre sceneggiatori. Inoltre, in questo film si apprezzano anche Libero De Rienzo, indimenticabile su “Santa Maradona” ed anche qui con un personaggio di nome Bartolomeo, Neri Marcorè e Lorenzo Lavia, figlio di Gabriele.

La storia è nota: alcuni ricercatori accademici, estromessi dalle rispettive università per mancanza di fondi e cialtroneria altrui, sbarcano il lunario come possono, per lo più con gravi difficoltà perché nessuno vuole assumere un dottore di ricerca come operaio o cameriere, fino al momento in cui, su intuizione del neurobiologo del gruppo, decidono di sintetizzare una sostanza psicotropa, una smart drug non ancora catalogata dal Ministero della Salute, e di spacciarla nei club romani. La banda, con un modello di business evoluto che sfrutta le competenze dei suoi membri iperistruiti, dall’econometria all’antropologia, ci mette davvero poco ad impossessarsi del mercato ed a perdere il controllo della situazione quando gli incassi arrivano copiosi, facendo oltretutto indispettire i malavitosi veri.

Si ride, si ride e si ride, e si continua a ridere quando le cose si complicano, quando i protagonisti vengono introdotti in ambienti altolocati e ritrovano i loro presunti mentori ancora impiegati nei loro intrallazzi, ed anche quando tutto sembra procedere verso il baratro, con un finale a sorpresa amaro e grottesco. Una satira ferocissima della società italiana degna del miglior Boris, una sceneggiatura costellata di autentici colpi di genio, sia nello sviluppo che nei dialoghi, una rappresentazione monumentale dei vari livelli di sfascio dell’Italia e dei dilemmi di chi si ritrova in mezzo ad una strada mentre chi gli fa la morale ruba, delinque e prende tutto quello che può trovando tutte le scappatoie possibili per non pagare mai il conto e non farsi mai da parte. Un’ora e quaranta passata a tenersi la pancia che restituisce una sintesi del mondo circostante perfetta e nauseante.

Imperdibile. Un grazie di cuore a chi mi ha portato a guardarlo.

Una domanda, tanto per la cronaca: chi è la gnocca impossibile che interpreta Paprika, la escort russa? Si può avere il numero del telefonino?

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Ognuno cerca il suo gatto

22 sabato Set 2012

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema

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Cedric Klapisch, cinema, cinema francese, commedia, film, gatti, gatto, Klapisch, Ognuno cerca il suo gatto, Parigi, Romain Duris

Chacun cherche son chatIl regista francese Cedric Klapisch in Italia è noto pressoché solamente per “L’appartamento spagnolo”, mentre oltralpe si è da tempo dimostrato capace di pellicole intelligenti e profonde, come, ad esempio, il recente “Parigi”; “Ognuno cerca il suo gatto”, del 1996, è il suo secondo film come regista, il primo che ha anche sceneggiato, ed è un gran bel film.

Analizziamo un attimo il titolo dell’opera: ovviamente l’opera non racconta le avventure di una pletora di esseri umani ognuno alla ricerca del proprio piccolo felino. Cos’è quindi un gatto? Un gatto è qualcosa a cui si dedica il proprio tempo, la propria attenzione, il proprio affetto, in maniera funzionale al proprio benessere e soprattutto senza aspettarsi niente di profondo in cambio: un gatto si abitua e si affeziona, ma non ama il proprio padrone. È questo il gatto di cui più o meno tutti i personaggi che compaiono nel film sono alla ricerca: qualcosa di cui prendersi cura, interessarsi ed a cui dedicare la propria vita. Che sia veramente un gatto, che sia un partner, che sia un amico, che sia una missione, che sia qualcosa per cui sentirsi utili, non è davvero importante. Quel che conta è averlo in mente, cercarlo e, magari, trovarlo.

In fin dei conti, per quanto possa sembrare banale e retorico, è questo che cercano le persone. La metafora del gatto, particolarmente azzeccata, dipende dal pretesto narrativo.

Chloe, una giovane truccatrice che vive in una banlieue parigina, decide di prendersi una vacanza ed affida ad una signora anziana che ne possiede un certo numero, la cura del suo gatto; al ritorno, scopre che il gatto è fuggito e non se ne hanno tracce. Comincia allora la ricerca del felino scomparso, che coinvolge un po’ tutto il quartiere, dal gruppo di vecchiette di cui l’affidataria dell’animale fa parte ad un giovane operaio immigrato ai limiti del ritardo mentale, passando per amici e conoscenti della protagonista.

All’interno di questa storia principale si sviluppano una serie di sottotrame che coinvolgono i singoli personaggi: la stessa Chloe, single ed attratta da un misterioso e silenzioso giovane che si ritrova spesso attorno, un suo amico gay con alcuni problemi di coppia (il film contiene una scena con due uomini che fanno sesso: forse non è stata una scelta eroica, ma oltre 15 anni fa certo nemmeno semplicissima), l’operaio che vede nel rendersi utile ad una persona disperata una fuga dall’atmosfera da caserma della comune in cui vive e del cantiere in cui lavora, la piccola comunità di anziane signore che attivano la loro rete di conoscenze mostrandosi attive nel tentativo di veder riconosciuta la loro importanza nel vicinato.

Ognuno, nel prodigarsi per ritrovare il gatto di Chloe, cerca contemporaneamente anche il proprio, appunto.

Il film è dunque molto riflessivo e fotografa con precisione ed eleganza le piccole inquietudini dei personaggi che sceglie di rappresentare. Il piglio dell’opera è comunque orientato alla commedia: per quanto non compaiano scene particolarmente divertenti, l’atmosfera è leggera e serve a far scivolare le situazioni senza appesantire o creare magoni. Però, d fondo, ciò di cui parla è triste, ed il messaggio arriva, chiaro e comprensibile. Klapisch ha optato per una rappresentazione molto realistica: la banlieue parigina è raffigurata in modo crudo, con cantieri aperti, strade in disordine, ed inoltre con una luce chiara ed intensa che fa quasi avvertire il caldo allo spettatore. Il cast, coerentemente con la realizzazione di un’opera di un regista emergente, non comprende nessun nome rilevante – se non Romain Duris, ma più che altro oggi, grazie tra l’altro alle diverse collaborazioni con lo stesso Klapisch – ma è funzionale e ben diretto.

Un lavoro low cost, ma intelligente, poetico e terribilmente francese. Pregevole.

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Martha da legare

19 martedì Giu 2012

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amicizia, amore, Boston Legal, british, cinema, commedia, film, Inghilterra, inglesi, Joseph Fiennes, Londra, Monica Potter

la locandina di Martha da legare“Quasi quasi mollo tutto, vado all’aeroporto e monto sul primo aereo che parte!” Chi non l’ha mai pensato? Io personalmente filosofeggio sull’argomento più volte alla settimana, ma finora ho sempre lasciato queste speculazioni su un piano puramente teorico. Il regista inglese Nick Hamm ha affrontato l’argomento in un modo un po’ diverso: ha supposto che qualcuno lo facesse e ci ha fatto un film.

Martha, giovane newyorchese carina, un po’ svampita e profondamente delusa dalla propria esistenza, passa dunque dalla teoria alla pratica in questa pellicola (il cui titolo italiano è un penoso gioco di parole sul nome della protagonista, mentre in originale è il più composto “Martha Meet Frank, Daniel and Laurence”) del 1998, che vede Monica Potter – nota anche per un pedante ruolo ricorrente nella prima stagione di “Boston Legal” – nei panni della protagonista, che atterra a Londra per dare inizio al resto della sua vita, sperando di riuscire ad impostarlo in modo migliore di quanto avesse fatto oltre oceano.

La storia è narrata in prima persona dal protagonista maschile, Laurence, interpretato da Joseph Fiennes – no, non Lord Voldemort: Shakespeare – il quale una mattina, alle prime luci dell’alba, si sveglia e suona alla porta del suo vicino di casa psicoterapeuta per sottoporgli un atroce dilemma etico: i suoi due migliori amici – un discografico arrivista, menefreghista e lamentoso ed un attore disoccupato privo della forza di volontà per mettere in atto le sue ambizioni – sempre pronti a beccarsi a vicenda hanno entrambi preso una cotta per la stessa donna, appunto la Martha sbarcata in Inghilterra solo un paio di giorni prima, e lui è nella posizione di poter risolvere la vicenda; solo che non intende farlo, perché dei due amici litigiosi ed egoisti ne ha le palle piene.

Il film è terribilmente inglese. Come tale, racconta con ironia e col ricorso ad un certo numero di scene estemporanee talvolta esilaranti una storia che di per sé certamente si presta ad un’interpretazione in chiave di commedia, ma non suggerisce da sola uno sviluppo smaccatamente orientato al riso. L’insoddisfazione e la disperazione di Martha, una persona disposta a lasciarsi alle spalle tutto quanto, l’amarezza di Laurence, che gli amici continuano a vedere come una sempiterna spalla su cui sfogare le loro talvolta ridicole preoccupazioni, come se lui fosse sprovvisto di sentimenti propri, e financo i fallimenti personali di questi ultimi sono lì per chiunque li voglia vedere. Nonostante questo ci si diverte: perché gli inglesi conoscono tanti approcci alla narrazione delle piccole tragedie della vita, ma quello che riesce loro meglio è riderne.

Un’ora e mezzo gradevole, che certamente concede qualcosa alla retorica, ma che tutto sommato rimane frizzante, e che conduce ad un finale non precisamente sorprendente – dopotutto è pur sempre una commedia – ma comunque preceduto da un paio di rivelazioni inaspettate. Un finale catartico, in cui Laurence, frainteso ed ignorato fino all’ultimo, si prende gioco dei due amici che continuano, ignari, a discutere, di fronte al quale si staglia nitida la domanda: “e io? Cosa dovrebbe capitarmi per farmi prendere e mollare tutto? E che cosa mi aspetterei, una volta partito?”

Amaro, divertente e speranzoso: british.

Un piccolo poscritto: occhio al tormentone. “La padella novella dipinta in blu” non perdona.

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