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Diego De Silva: “Non avevo capito niente”

27 venerdì Giu 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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avvocati, camorra, Carofiglio, coppia, De Silva, Diego De Silva, doppiaggio, Einaudi, italiano, letteratura, lettura, libri, libro, musica, Non avevo capito niente, novità, processi, romanzo, scrittura, traduzione

Diego De Silva - Non avevo capito nienteGià qualche volta, fingendomi esperto di cinema, ho sdottorato sui problemi del doppiaggio italiano. Riflettendo con un’amica libraia sono recentemente giunto alla conclusione che il problema è più vasto.

Qualche tempo fa ho letto questo libro di Diego De Silva. Ho anche letto alcuni romanzi di Carofiglio e sono un affezionato ammiratore del collettivo Wu Ming. Autori che apparentemente non c’entrano niente l’uno con l’altro, tranne per l’appartenenza ad una generazione moderna della narrativa italica: hanno uno stile di scrittura fresco, immediato, diverso dalla prosa ingessata dei venerati maestri, ma anche da quella che si legge su tanti libri tradotti.

Già, la traduzione. L’impressione è che il problema dell’adattamento dei dialoghi sia lo stesso che emerge nel cinema: un blocco su standard che impediscono di rendere in modo creativo la lingua moderna. Tra l’italiano di un De Silva o di un Carofiglio, e quello, tradotto, di un Lansdale c’è un abisso; leggendo gli autori italiani si ha la sensazione di avere a che fare con opere linguisticamente innovative, brillanti. Questo perché De Silva e Carofiglio fanno quello che alla fine della fiera è il loro compito: rendere in italiano strutturato la lingua parlata, il linguaggio con cui avvengono le interazioni tra le persone, modificando la lingua, cosa che chi traduce Lansdale è più limitato nel fare.

Quando leggo un libro come “Non avevo capito niente”, inoltre, sono impressionato dalla capacità di spaziare tra un’infinità di temi, che vanno dal rock italiano alla camorra, dal rapporto coi figli adolescenti all’amore (“la più diffusa malattia autoimmune”). Verrebbe da dire che capita raramente che qualcuno abbia qualcosa di intelligente da dire su tutta questa roba, ma non è vero. La verità, invece, è che succede spesso. Spesso in senso relativo, evidentemente, ma spesso. E succede per un motivo molto semplice: in assenza di un establishment culturale, una cosiddetta intellighenzia che ne parli, la persona intelligente sente la necessità di farlo ed è in grado di proporre letture originali, che, a chi legge e vorrebbe che certe tematiche fossero argomento di discussione quotidiana, appaiono fresche e stimolanti.

De Silva in questo romanzo presenta l’avvocato Malinconinco, un protagonista, che scopro essere ricorrente, che si arrabbatta come può in un mercato professionale saturo in cui lui ha poca voglia di lottare. Non tanto per questioni etiche, quanto perché ci vorrebbero una rabbia, una determinazione e una preparazione che non sente di poter mettere. Lui vorrebbe fare Perry Mason, grandi intuizioni, creatività e poco studio. Siccome non è possibile, soprattutto nell’intricato sistema italiano, boccheggia.

Malinconico ha una ex moglie, che ha un nuovo compagno ma a volte sente la necessità di andare a letto con lui, ed una figlia adolescente persa tra la superficialità a cui la richiama il mondo che la circonda e una profondità di pensiero da persona di livello (basterebbe questo ritratto della rappresentate di una generazione solitamente descritta con squallido senso di superiorità per far capire la qualità della scrittura di De Silva). Ha una professione che prende una piega inaspettata quando un tirapiedi della camorra rimane senza avvocato, Malinconico viene nominato difensore d’ufficio e, brancolando nel buio, azzecca un paio di mosse teatrali durante alcune fasi dell’udienza preliminare. La faccenda lo turba, perché da un lato ci sono i soldi, tanti soldi, dall’altra la loro provenienza, cosa che gli viene tra l’altro regolarmente ricordata da una surreale guardia del corpo dell’organizzazione che lo segue dappertutto.

Il tutto mentre l’avvocato più attraente della procura è attratta da lui, perché tra i suoi casini personali e il suo vivere a metà strada tra dentro la sua testa e le nuvole, è l’unico a non farle la corte e addirittura ad ignorarla quando lei si fa avanti.

Malinconico che fa? Oltre a sviscerare la sua situazione dal punto di vista etico, continua a perdersi nei suoi pensieri, tra discorsi sull’innamoramento ed analisi critiche delle canzoni di Eugenio Finardi, alla ricerca di un modo decente di tirare dritto, possibilmente senza perdersi, senza scordarsi della nuova fidanzata e senza combinare troppi pasticci con la figlia. Niente fuochi artificiali, effetti speciali, solo la storia di un italiano comune, ben scritta, ben raccontata e resa in modo intelligente ed ironico. Cosa che, a ben vedere, è molto più difficile.

Pregevole.

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Blue valentine

27 venerdì Lug 2012

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema

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amore, blue valentine, capolavoro, cinema, coppia, Derek Cianfrance, film, innamoramento, matrimonio, Michelle Williams, ryan gosling

Blue ValentineGrandissimo ed amarissimo film del 2010 di Derek Cianfrance, con Ryan Gosling e Michelle Williams: un altro che, se non fosse per la mia cotta per quest’ultima, non mi sarebbe mai capitato di vedere, soprattutto considerando che, anche a discapito dei numerosi premi vinti raccolti in giro per i festival cinematografici, in Italia non è stato distribuito. Insomma, al di là della mia sbandata di tipo adolescenziale, mi ritrovo a provare per la Williams anche una certa gratitudine, perché il volerla seguire continua a farmi guardare dei bei film: un caso senza speranza.

La miglior sintesi di questa pellicola è il suo titolo: valentina triste (no, il minuscolo non è un errore). Vengono presentati in parallelo la nascita di un amore tra due giovani, abbagliati da un colpo di fulmine, e la loro vita dopo alcuni anni di matrimonio, quando un rapporto nato su basi interamente emotive, e come tali poco solide, e portato avanti in tutta fretta anche a causa di eventi meramente contingenti, si dirige inesorabilmente verso la dissoluzione, e rimane in piedi solo come risposta a problemi pratici, ad esempio la figlia dei due protagonisti.

Il grande merito del film, almeno dal mio punto di vista, è quello di presentare semplicemente il prima ed il dopo, senza cercare di narrare la catena di esperienze, verosimilmente triviali e singolarmente non necessarie alla narrazione, che conduce la giovane coppia innamorata e felice, pronta a sacrifici ed adattamenti, a trasformarsi in quella stanca e rassegnata, una situazione da cui non si vede una via d’uscita. Allo stesso modo l’opera non cerca di attribuire responsabilità: quello che emerge, con una certa dose di realismo, è che certe cose succedono e basta.

Si osservano due persone – una cresciuta senza la madre, fuggita dal tetto domestico dopo pochi anni, l’altra vissuta in una casa piena di liti e recriminazioni – comportarsi in modo diverso e complessivamente speculare al vissuto di fronte alla crisi: la prima lotta per mantenere vivo il rapporto, non volendo arrendersi a separarsi come avevano fatto i suoi genitori, ma non riuscendo ad andare oltre a delle misure banali ed inefficaci; la seconda si arrende all’evidenza in modo totale e disincantato, mettendo su un impenetrabile meccanismo di autodifesa. Sarà scontato, ma è verosimile. Vengono dunque presentate delle scene brillanti, con dialoghi frizzanti e coinvolgenti, nelle sezioni che raffigurano il passato corteggiamento tra i due, mentre in quelle riferite al presente si hanno davanti due individui che non riescono a terminare una conversazione senza infilare qualche stilettata volta a ferire l’altro in maniera profonda ed apparentemente gratuita, e che naufragano parallelamente ma separatamente, uno provando disperatamente a nuotare, senza costrutto e quando oramai è troppo tardi, l’altro chiamandosi fuori e rassegnandosi.

Il film ha un ritmo compassato e potrebbe facilmente essere considerato lento. Tuttavia questo consente alla sceneggiatura ed alla regia di indugiare dettagliatamente sull’ambito emotivo in cui i protagonisti si muovono, che, proprio perché complessivamente comune, necessita di essere dipinto con precisione, per evitare una trattazione superficiale. Regia, dialoghi, fotografia, ambientazione – in Pennsylvania, all’ombra della grande città: viene menzionata Brooklyn ed una scena ha come sfondo lo skyline di Manhattan – e recitazione rendono l’opera pregevole ed incredibilmente realistica.

Non si tratta di uno di quei lavori in cui lo spettatore si dilania di fronte a qualche grande tragedia, ma uno di quelli in cui l’amarezza si alterna ad un sottile disagio od imbarazzo, perché lo spettatore vi riconosce il dramma quotidiano delle persone comuni, magari addirittura il proprio, o quello di persone a lui vicine. Il tutto senza artifici retorici o narrativi per abbellirlo o glorificarlo.

Un film eccezionale, ma bisogna davvero essere disposti a guardarlo.

Per quello che mi riguarda, è stato comunque addolcito dalla presenza, qui addirittura in delle scene di nudo, di Michelle Williams. Con il piccolo problema che, per me, è inconcepibile uno che la tratta male o che non si sforza abbastanza di capirla. Il rischio poteva essere addirittura quello di fraintendere il discorso di fondo del film, attribuendo delle responsabilità dove il regista non suggeriva di farlo. Forse non sono pessimo come sembro, dopotutto.

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