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Zola Jesus @ Club Monk, Roma, 14/11/2017

15 mercoledì Nov 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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Circolo degli Artisti, Club Monk, comunicazione, Conatus, concerto, dark, darkwave, elettronica, emozione, esibizione, gothic, indie, indie pop, live, malinconia, Monk, musica, musica dal vivo, musica elettronica, musica indie, musica indipendente, musica live, Mute Records, Nika Roza Danilova, Okovi, passione, Poor animal, Sacred Bones Records, show, Stridulum, Taiga, Veka, Zola Jesus

E così si è conclusa la mia personale sessione autunnale dei concerti a Roma. O almeno così credevo, perché invece si è imprevedibilmente aggiunta una piccola coda, all’inizio della settimana prossima. Per il momento, comunque ha chiuso Zola Jesus, che martedì 14 novembre si è esibita al Monk, noto figliastro del Circolo degli Artisti, luogo dove l’avevo vista ed apprezzata sei anni fa.

Alcune considerazioni sulla carriera di Nika Roza Danilova. Nel 2011 venne a Roma come giovane cantautrice proposta da una casa discografica di piccole dimensioni, la Sacred Bones Records, dalle strumentazioni minimali ed elettroniche, dalle ambientazioni dark e con una solida band alle spalle. All’epoca fece più o meno il tutto esaurito. Poi le cose non le sono andate benissimo: provò il lancio in un giro più grande, passando alla Mute Records, tentando di rimanere ancorata al suo tipo di comunicazione, ma con una veste musicale più spendibile: il risultato fu “Taiga”, pubblicato nel 2014, un album francamente modesto, povero di spunti, per giunta di scarso successo. Dopo il mezzo fiasco, Zola Jesus è tornata alla Sacred Bones e ha ripreso il discorso dove lo aveva interrotto. Il suo ultimo album, “Okovi”, è quello che uno si sarebbe aspettato di ascoltare dopo “Conatus”, una sua evoluzione in chiave techno-pop, con strumentazione più presente ed ossessiva ed analoghi richiami scuri e macabri.

Niente di male, non c’è nulla di sbagliato nel tentare di uscire dalla propria zona di conforto, come non c’è nel non riuscirci, mentre c’è molto merito nel rendersene conto e tornare indietro, e ce n’è ancora di più nell’accettare che la propria dimensione è la nicchia. Infatti “Okovi” è un disco bellissimo, con cui Zola Jesus ha ripreso il discorso con cui ci aveva lasciati nel 2011, solo con un 3-4 anni di ritardo.

Al Monk martedì sera c’erano forse 150 persone, parecchie meno che al Circolo sei anni fa, ed è un peccato. Perché il concerto, ancorché breve, è stato bello, intenso e molto caldo. Ecco, se c’è un aspetto in cui Nika Roza non è rimasta indietro è l’esibirsi dal vivo. L’avevo lasciata trascinante ma incerta, potente ma spaesata, l’ho ritrovata consapevole e convinta, affascinante e coinvolgente, molto più a suo agio con l’idea di comunicare quello che ha dentro.

Abbandonata la band ed abbracciata in modo più completo l’elettronica, Zola Jesus è accompagnata da due tizi: un chitarrista, che per la maggior parte del tempo fa più tappeto sonoro che altro, ed una violista. Per il resto, basi ed elettronica digitale che gestisce lei stessa. Più la voce – quella sì, più matura, controllata, professionale. Bella e potente quando ce n’è bisogno, più dimessa e buia, sempre bassa e molto calda.

Ha suonato parecchio del suo ultimo lavoro, iniziando con la splendida “Veka” (grande entrata in scena, anche se forse un pezzo così avrebbe meritato una collocazione più in avanti, con le persone calde e perfettamente dentro al mood del concerto), e chiudendo, prima dei bis, con “Exhumed”, primo brano del disco dopo il breve intro. Bassi potentissimi, un impianto accettabile, un’acustica più che discreta per le condizioni della sala, sporcata tuttavia da qualche vibrazione di troppo, e tanta energia. Pur con i i suoi brani compassati e malinconici, Zola Jesus non canta ferma e a testa bassa: si muove, si agita, chiama il pubblico (a suon di bestemmie in italiano, grosso modo l’unica cosa che sa dire nella nostra lingua), usa il corpo e tutto quello che ha per esprimersi. La sua musica può essere malinconica e triste, ma non è sconfitta.

L’unica pecca del concerto, la scarsa durata: dopo circa un’ora, i tre musicisti hanno lasciato il palco, per rientrarvi dopo un paio di minuti, suonare un solo pezzo e salutare. Con un repertorio di 3 album (più un semidisperso disco d’esordio realizzato in casa) e 2 splendidi EP, si poteva pescare parecchio di più: che fine hanno fatto pezzi come “Seekir”, “Manifest destiny” e “Poor animal” (brano spettacolare pubblicato sull’EP “Valusia” e poi inspiegabilmente trucidato dalla Sacred Bones nel momento di compilare la scaletta di “Stridulum 2”)?

Peccato. Davvero, Zola Jesus poteva fare di più. Meglio, probabilmente no.

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Casualties Of Cool live alla Union Chapel, Londra

05 martedì Apr 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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Anneke Van Giersbergen, Arjen Lucassen, Ayreon, Casualties Of Cool, Ché Aimee Dorval, Ché Dorval, concept album, concerto, dark, Devin Townsend, Devin Townsend Project, Johnny Cash, live, Londra, malinconia, musica, musica live, rock, Strapping Young Lad, The human equation, Union Chapel, youtube, Ziltoid

Prima che giustamente lo rimuovano per violazione del copyright (soprattutto essendo facilmente reperibile in commercio l’edizione originale del disco contenente il DVD), consiglio a chiunque passi su queste pagine di dare un’occhiata al concerto integrale di Casualties Of Cool riportato qua sotto.

Casualties Of Cool è un progetto nato dalla mente di Devin Townsend, vulcanico genio del caos, membro di band di metal estremo come gli Strapping Young Lad, signore dei grunts e dei growl che utilizza diffusamente ed in modo quantomeno originale, autore di opere metal-progressive incentrate su uno strano tizio alieno, Ziltoid l’onnisciente, vocalist su “The human equation” di Ayreon nella parte della rabbia per la quale Lucassen gli ha fatto scrivere le partiture ed il testo, animale da palcoscenico fortemente emozionato nel suonare le sue composizioni, fan, come chiunque dotato di orecchie funzionanti, della voce di Anneke Van Giersbergen.

Solo che Casualties Of Cool non è un progetto metal, non è un progetto caotico, grunts e growl non c’entrano quasi niente. Townsend l’ha descritto come “Johnny Cash infestato dai fantasmi”: sarebbe un ottimo motivo per tenersene alla larga, solo che lui è un genio che sa scrivere e soprattutto sa interpretare musica, ed in più c’è una vocalist ospite sostanzialmente sconosciuta, tale Ché Aimee Dorval, che ha una voce da pelle d’oca, calda, elegante, suadente e meravigliosa, è capace di usarla e Townsend è consapevole di quello che vuole da lei.

Su youtube di Casualties Of Cool c’è anche il disco in versione integrale – da tempo, e non è mai stato rimosso. C’è addirittura il secondo disco dell’edizione speciale, che di fatto è un altro album, con le medesime atmosfere. Ma se uno deve investire del tempo a scoprire un progetto davvero molto strano, evocativo, misterioso e terribilmente scuro, tanto vale che se ne veda l’edizione dal vivo. L’album è eseguito sostanzialmente in forma integrale, con qualche avvicendamento e qualche variazione nella scaletta (il che per un concept album è singolare) e, come dicevo, Townsend sul palco ci sa stare e sceglie strumentisti preparatissimi che lo completano senza fargli ombra; inoltre, in questo caso, ha al suo fianco una ninfa meravigliosa, a cui lascia spesso il centro dell’attenzione e che a volte prende letteralmente il volo, come ad esempio sul finale di “Moon” (attorno al quarantesimo minuto), sovrastando tutto quello che ha attorno, davanti, dietro, sopra, sotto e chissà in quale altro posto. Pazzesca, incredibile.

Veramente, il concerto va visto, va ascoltato e va assaporato. Anche se le riprese video sono quello che sono (in effetti bisognerebbe ridurre la luminosità ed aumentare saturazione e contrasto). È davvero necessario ascoltare le atmosfere create da Townsend e sviluppate sul palco da una grande band, lasciarsi trasportare nel suo mondo mai come in quest’opera desolato e malinconico, nella sua musica per una volta suadente, notturna, evocativa, ma soprattutto è necessario innamorarsi perdutamente di Ché Dorval, rimanere imbambolati a chiederle di andare avanti, di non fermarsi mai, di continuare ad entrarci dentro ed a scuotere, rivoltarci l’ anima.

Guardatelo.

 

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Cat Power: “The greatest”

17 mercoledì Dic 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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album, bellezza, bello, canzone, capolavoro, Cat Power, Chan Marshall, dark, disco, indie, indie rock, malinconia, Moon pix, musica, musica indipendente, recensione, soul, The greatest, You are free

Cat Power - The greatestChan Marshall, in arte Cat Power, è un’icona nell’ambiente della musica indipendente, soprattutto in America. Capita quindi spesso, frequentando siti e forum che si occupano dell’argomento, di leggere recensioni, presentazioni ed opinioni sui suoi dischi, sui suoi concerti e su di lei in generale.

“The greatest” è il suo album del 2006, il primo di inediti dopo 3 anni, e l’ultimo per circa 6. Nel suo curriculum segue nell’ordine “Moon pix” e “You are free”, considerati generalmente i suoi capolavori, le sintesi della sua musica, tanto che sono i due titoli che vengono solitamente consigliati urbi et orbi a chi vuole le si vuole avvicinare ed a chi la vuole approfondire. “The greatest” rappresenta anche una leggera svolta nella carriera di Chan Marshall, che con questo album passa ad un suono leggermente più pieno, più da band, con una sezione di fiati ed un approccio generale che la avvicinano vagamente al soul con qualche venatura jazz.

Quando si parla di questo disco normalmente la sintesi delle opinioni che vengono espresse è “bello, ma…”. Bello, ma non all’altezza dei suoi capolavori. Bello, ma distante dal tipico stile Cat Power. Bello, ma non convincente. Bello, ma meno intimista dei suoi lavori più riusciti. Bello, ma discontinuo, con due capolavori come pezzi d’apertura e di chiusura, ed un corpo meno brillante.

Tutto vero. Solo che per me “The greatest” è bello e basta.

Il pezzo introduttivo, la title track, è qualcosa che semplicemente non si può descrivere a parole, una canzone che rasenta la perfezione, probabilmente da sopra. Tre minuti e ventidue secondi di bellezza, di emozione, di sensualità, di struggente malinconia, di profondità. “The greatest” è un pezzo che vale una carriera, forse una vita: una persona capace di scrivere un brano così è giusto che faccia la musicista, che dedichi sé stessa a comporre, suonare e cantare, anche dovesse non scrivere mai più nient’altro di paragonabile. Anche il finale è fantastico, ed a questo proposito la supposta discontinuità del disco altro non è che un semplice limite umano: non esiste un album di canzoni che sia composto da 12 pezzi del livello di “The greatest”, non esiste una persona in grado di scrivere 12 brani del genere di seguito, se esistesse sarebbe il dio della musica, ed è comunque tutto da vedere se un album così sarebbe poi davvero fruibile.

Il problema di “The greatest” inteso come disco, semmai, è che il capolavoro, il pezzo sopra a qualunque altra cosa, si trova all’inizio dell’album, e quando raggiungi la perfezione subito poi non puoi che scendere. E non hai nemmeno il tempo o il modo di far avvicinare chi hai avanti a ciò a cui arriverai. Per questo, forse, il prosieguo delude la gente: come fai, quando hai perso la verginità con miss college, ad accontentarti delle tue carinissime compagne di corso? Ti ci vuole un po’ per riprenderti: non è semplicissimo, se parliamo di un disco di 42 minuti.

Però le 10 canzoni successive sono in gran parte belle davvero: scure, malinconiche, a volte un po’ dimesse, alcune bizzarre con i loro fraseggi dei fiati, ma quasi sempre seducenti, affascinanti – mentre l’undicesima, “Love and communication” ritorna prepotentemente in cima, bellissima, sensuale. Ma non è questo esattamente il punto.

Il punto è che “The greatest” sarebbe un bel disco anche senza la title track, una canzone di una tale bellezza che riesce sovrastare inesorabilmente il resto. Con la title track come primo pezzo, ondeggia tra un bell’album impreziosito da una gemma quasi dolorosa per quanto è speciale e per quanto poco dura, ed un costante sottofondo di amarezza perché, quando lo si ascolta, dopo i primi 30 secondi si è convinti di essere stati presi e trasportati in un’altra dimensione, ed invece siamo ancora sulla terra, nel mondo reale. E nel mondo reale i dischi, soprattutto quelli di persone strane ed un po’ problematiche, sono tante cose, ma certo non sono perfetti, e sono interessanti proprio per questo: per le storie che raccontano, per le persone che ci sono dietro e che parlano di sé. Qualcosa che Chan Marshall sa fare davvero molto bene.

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Ruby Throat

08 mercoledì Mag 2013

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arte, canzoni, coccole, comunicazione, cupo, dark, dolcezza, emozioni, Florence + The Machine, Florence And The Machine, Florence Welch, genio, indie, indie rock, Katie Jane Garside, KatieJane Garside, London Tube, Londra, malinconia, metropolitana di Londra, musica, musica indipendente, noise, pathos, Queen Adreena, Queenadreena, Ruby Throat, video, Wendy & Lisa, youtube

Ruby Throat - Out of A Black Cloud Came A BirdChiunque sia passato per sbaglio su queste pagine potrebbe aver avuto il sospetto che io ami la musica. In particolare, amo la musica indipendente. Come concetto, al di là dei singoli nomi, gruppi, generi o movimenti.

Una persona che, in questo ambito, amo particolarmente è KatieJane Garside, probabilmente il più sexy animale del pianeta, un tempo vulcanica ed esplosiva leader dei Queen Adreena, autori di pezzi memorabili come “Pretty like drugs” e di album sensazionali come “Drink me”. Nella seconda metà del decennio scorso, KatieJane ha cominciato a guardarsi attorno per esprimere quanto una band noise non le permetteva di esplorare della sua personalità: dopo un disco solista registrato a casa propria, intimo, etereo e a tratti magnifico, ancorché un po’ prolisso e poco movimentato, ha dato avvio ad un progetto diverso, denominato Ruby Throat.

I Ruby Throat sono due: in pratica le loro canzoni sono orchestrate con voce e chitarra, spesso elettrica. Raramente si aggiunge qualcos’altro, per lo più effetti e basi. La voce è quella di KatieJane, la chitarra è invece opera di tale Chris Busking, un tizio scovato nel 2006 dalla stessa Garside nella metropolitana di Londra. Si parlava di musica indipendente: quale musicista, in ambiente mainstream, avrebbe proposto di registrare in totale autonomia dei dischi ad un artista di strada? Chi avrebbe prodotto e distribuito materiale del genere senza nessun tipo di intervento per rendere fruibile il lavoro?

Ecco, questo per me è il concetto di musica – o il concetto di arte, più precisamente: esprimersi e realizzarsi liberamente, senza vincoli o costrizioni. Se poi l’espressione prescinda dalla forma o meno, è una questione di cui si deve occupare l’artista, non il discografico che ha il solo interesse di vendere il prodotto. Un grandissimo disco realizzato in totale autonomia, “White flags of winter chimneys” di Wendy & Lisa, fu poi consegnato ad un professionista amico del duo con la raccomandazione di “make it sound cool”. Analogamente, chi, come Florence Welch, si mette in casa come tastierista una produttrice ben inserita nell’ambiente londinese, evidentemente cerca un certo tipo di forma sonora. Tuttavia il contenuto espressivo può essere indipendente da questo aspetto.

Il progetto Ruby Throat lo è: niente imbellettamenti, niente produzione di un qualche livello. Due persone che suonano una musica di una semplicità disarmante, con un approccio minimalista ed una malinconia struggente e carezzevole. Per “In the arms of flowers”, uno dei brani del loro secondo album, “Out of a black cloud came a bird”, è stato realizzato un video. Si tratta di immagini girate in una radura, con degli alberi in fiore, ma immersi in un’atmosfera dimessa, quasi autunnale, con colori poco saturi e quasi impalpabili. Katie Jane Garside, con indosso un trucco troppo pesante e la sola sottoveste, appare in trasparenza, come una specie di interferenza, o talvolta somigliando più a uno spettro, a guisa di una bambola vittoriana in rovina.

Raramente ho visto un video descrivere meglio la musica che accompagna: eterea, sottile, quasi silenziosa, cupa ed autunnale, la canzone scorre lenta, delicata ma vagamente inquietante. La voce si eleva poco al di sopra del sussurro, ma non è tanto un segreto quello che racconta, perché un segreto crea disagio: qui si parla di confidarsi, di mettersi a nudo, e certe cose merita di ascoltarle solo chi vuole davvero stare a sentire. La chitarra elettrica accompagna semplicemente con una sequenza di accordi, senza mai prendere il sopravvento o nemmeno osare contendere la scena ad un cantato morbido ed ipnotico.

Questi sono i Ruby Throat. Potrei parlare più approfonditamente del duo, dei singoli dischi, delle singole pennellate, magari citando le piccole variazioni stilistiche e musicali o discutendo di come il tutto non rappresenti per KatieJane Garside tanto una rottura con l’esperienza dei Queen Adreena quanto una sua continuazione con mezzi diversi, ma davvero difficilmente aggiungerei qualcosa a quanto emerge dalla visione e dall’ascolto di “In the arms of flowers”. Si potrebbe sostenere che un gruppo, o anche un disco, che propone solo cose del genere è piatto e noioso. Magari è vero, ma a volte bisogna semplicemente sdraiarsi e lasciarsi coccolare.

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