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~ "Non ci sono tante pietre al mondo!"

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Irlanda

16 martedì Gen 2018

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Fingersi esperti di musica

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Achtung baby, addio, anni 90, anni novanta, Bono, britpop, Celti, costume e società, Cranberries, Dolore O'Riordan, Dublino, Eire, Enya, folk, indie, indie rock, Inghilterra, IRA, Irlanda, Limerick, musica, musica celtica, musica folk, musica pop, musica rock, O'Riordan, politica, pop, pop-rock, RIP, rock, Roddy Doyle, società, storia, storia contemporanea, The Commitments, The Edge, The Fly, U2, Ulster, Zombie, Zoo TV

Era un po’ che pensavo di scrivere questo articolo: mi ritrovo a farlo oggi, per commemorare la povera Dolores O’Riordan e ricordare perché una come lei è stata una presenza fondamentale per la mia generazione.

Per chi c’era e se lo ricorda o per chi se lo è fatto raccontare, verso la metà degli anni Novanta improvvisamente ha cominciato ad andare di moda l’Irlanda. Dublino e le coste atlantiche dell’Eire hanno iniziato di colpo ad esercitare un fascino enorme su tutta Europa e tutti volevano, dovevano andarci. Ovviamente non era sempre stato così. L’Irlanda, fino a pochi anni prima, veniva vista da un lato come un paese povero, dall’altro come un luogo pieno di problemi, con l’Ulster e l’IRA, con la gente armata per strada ed i combattenti cattolici che mettevano le bombe nei locali di Londra.

Gli irlandesi più famosi del mondo, all’epoca, erano ovviamente gli U2: una band al culmine della fama, che veniva dritta dal capolavoro berlinese “Achtung baby” e dallo Zoo TV, da due anni di tournée trionfale e magnificente negli stadi di tutto il mondo, incarnati dal personaggio di The Fly, quasi un extraterrestre, che negli ultimi anni si era messo metaforicamente sulle barricate contro la guerra nella ex Jugoslavia e che in passato aveva celebrato personaggi come Martin Luther King e cantato la povertà negli Stati Uniti sotto Reagan.

Per il resto, l’Irlanda era una provincia dell’impero, dove si parlava più o meno la stessa lingua dell’impero, ma per il resto non diversa dall’Italia o dalla Spagna. Gli stessi U2 erano emersi in realtà dalla narrazione dell’Irlanda problematica, con brani anagraficamente vecchi più di un decennio ma spesso riproposti come “Sunday bloddy sunday” e “New year’s day”.

A contribuire al successo dell’Irlanda, allo svecchiamento della sua immagine di paese povero e violento, per dipingerlo come luogo attraente e pieno di opportunità, era stato in primo luogo, a livello vagamente elitario, “The Commitments” – parlo del film, tanti di quelli che lo magnificavano nemmeno sapevano che era stato tratto da un romanzo di Roddy Doyle – in cui gli irlandesi si identificavano come “i neri d’Europa” e come tali suonavano la musica delle classi lavoratrici, il soul, e si ponevano come dei giovani alla ricerca di uno sbocco in una realtà complessivamente povera, ma umanamente molto vivace. Poi era arrivata la musica: prima di tutto il folk – negli anni Novanta la musica celtica andava per la maggiore ovunque – e con esso la sua sacerdotessa indiscussa, Enya. Infine arrivò qualcun altro a cambiare tutto.

Originari di Limerick, quindi della provincia della provincia, un posto raffigurato fino a poco prima come un paese rurale ed in guerra che aveva dato l’origine di una musica evocativa e misteriosa, ecco quattro ragazzi con le facce normali ed un look ripulito che suonano un rock moderno e gradevole, con le influenze di Bono e soprattutto The Edge perfettamente identificabili, ma diversi, personali, attuali. Era normale che il rock-pop parlasse inglese, era normale che venisse dall’Inghilterra, da Londra, da Manchester, da Liverpool; molto meno, che una musica da tutti i giorni venisse dalle campagne irlandesi, per bocca e strumenti di quattro tizi che non si ponevano come divi o come portatori di chissà quali istanze e pretese, ma come gente che cantava la propria vita, che non c’entrava niente coi Celti e con l’IRA: la stessa vita di tutti. Una vita in cui la canzone simbolo della band era un brano che parlava della tragedia dei bambini nelle zone di guerra, ma non specificatamente nella guerra dell’Ulster. Una vita come la nostra, insomma.

Per cui ecco che improvvisamente l’Irlanda non era più il paese delle bombe e dei Celti, di una ninfa irraggiungibile e di un alieno infallibile: era un paese come tutti, in cui si poteva partire da una pagina bianca per parlare e dire qualsiasi cosa, in cui quattro tizi dall’aria timida capitanati da una giovane donna coi capelli biondo platino ed una voce potente ed incredibilmente espressiva potevano aprire la bocca per cantare ed emozionare mezzo mondo con canzoni semplici, dirette, oneste.

I Cranberries di Dolores O’Riordan, per l’appunto: una band che ha cambiato l’immagine di un intero paese praticamente da sola. E pensare che c’è chi dice che la musica non ha nessuna vera valenza politica.

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Anne Brontë: “La signora di Wildfell Hall”

31 mercoledì Mag 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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alcoolismo, alcoolisti, Anne Bronte, autodeterminazione, Charlotte Bronte, Cime tempestose, classici, costume e società, diciannovesimo secolo, donne, Emily Bronte, epoca vittoriana, femminismo, indipendenza, Inghilterra, Inghilterra vittoriana, Jane Eyre, La signora di Wildfell Hall, letteratura, libri, libro, Ottocento, romanticismo, romanzi classici, romanzo, scrittura, società, Sorelle Bronte, Villette, XIX secolo

Ho comprato e letto questo libro a seguito di una breve conversazione su Twitter con una tizia che chiedeva ai suoi follower quale fosse la loro sorella Brontë preferita: avendo io letto materiale solamente di Emily (“Cime tempestose” e qualche poesia) e di Charlotte (“Jane Eyre” e “Villette”), e nulla di Anne, non potevo rispondere compiutamente alla domanda. Mi è stato allora consigliato di leggere quanto prima “La signora di Wildfell Hall”: essendo il libro disponibile nella libreria sotto casa a 4,90 euro, ho seguito il consiglio.

Il libro sostanzialmente consta di due romanzi quasi separati: una narrata da un uomo che ricorda degli eventi accadutigli anni prima tramite delle lettere ad un amico, la seconda raccontata tramite un diario da una giovane donna, ed è in pratica un flashback che si conclude con l’inizio della prima; nella terza e conclusiva parte, le due sottotrame convergono fino a giungere al finale.

Dal punto di vista stilistico, quindi, la più giovane delle sorelle Brontë si è andata a cacciare in un guaio di discrete proporzioni, essendosi posta l’obiettivo di narrare una vicenda da due punti di vista separati, tra l’altro fino ad un certo punto confliggenti, peraltro di sessi diversi. Purtroppo però c’è da dire che è molto discutibile che ci sia riuscita.

Parlando del contenuto, il libro è superlativo, forte, innovativo e ben più radicale persino di “Villette”, il romanzo di Charlotte Brontë che parla degli sforzi di una giovane donna di autodeterminare il proprio destino e dirigere in modo autonomo e consapevole la propria vita. In “La signora di Wildfell Hall” abbiamo a che fare di una donna che si ritrova con un marito alcoolizzato, privo di freni ed abusivo e decide di riprendere il controllo della propria vita, che fa delle scelte radicali per l’epoca, con una lucidità, una razionalità ed una capacità di guardare oltre il tornaconto personale e gli effetti immediati delle proprie scelte che la rendono una persona estremamente moderna anche comparata con svariati personaggi letterari contemporanei. Anche le minuziose e realistiche descrizioni degli effetti dell’abuso di alcool nei rapporti sociali ed individuali sono un notevole elemento di innovazione del romanzo.

Parlando dello stile, invece il discorso è un tantino più complicato. La scrittura è in buona sintesi spaccata in due – la narrazione ed i dialoghi. La prima scorre via per lo più piacevolmente ed in modo elegante e misurato; i secondi invece, anche quelli interiori, sono schematici e scolastici, infarciti di esagerazioni e discorsi da stracciamento di vesti che diventano molto rapidamente patetici, melliflui e ripetitivi. Siamo molto lontani dal lirismo di Emily e da Heathcliff che implora lo spettro di Cathy di perseguitarlo.

La parte scritta in prima persona dalla protagonista è molto interessante, anche in presenza di dialoghi assurdi ed imbarazzanti e di gente che si rende ridicola ogni volta che apre bocca, che sia per dichiarare amore imperituro o per dire scemenze in preda all’alcool: un pragmatismo che si confronta molto bene con quello di Charlotte, all’interno di una storia per molti versi più terribile, perché parla di presa di coscienza, responsabilità e cambiamento, non di formazione; la parte riferita dal giovane uomo è invece vagamente patetica nel suo insieme, perché non racconta una serie di situazioni in cui le persone accanto a lui si cacciano in situazioni infelici o patetiche mentre lui cerca di tamponarle, il primo a fare figure misere, oltretutto in continuazione, è proprio il narratore. E, diciamocelo, leggere di un servo della gleba che si rende ridicolo a ripetizione non è esattamente un piacere.

In conclusione, si tratta di una bellissima storia, con una quantità spropositata di elementi di rottura per l’epoca e molto istruttiva nell’ambito dell’origine del femminismo (qui abbinato ad un superbo senso del dovere) oltre che di molte altre cose di importanza ed elevatezza notevoli, che alla buona società dell’epoca devono essere piaciute pochino, ma inserite in un libro che proprio bellissimo non è: è un piacere leggerlo solamente quando a parlare è la signora Graham/Huntingdon, certo non quando parla il piuttosto ridicolo signor Markham – davvero, l’identificazione del lettore è ardua se non impossibile con lui. Peccato, però.

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Jonathan Coe: “La famiglia Winshaw”

15 lunedì Feb 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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amarezza, America, anni ottanta, avidità, capitalismo, Coe, crisi, economia, Europa, Gorbachev, guerra, guerra del Golfo, Hap e Leonard, Inghilterra, Iraq, Jonathan Coe, La famiglia WInshaw, Lansdale, letteratura, lettura, libri, libro, Londra, Medio Oriente, narrativa, politica, Reagan, romanzi, romanzo, Saddam, Saddam Hussein, schifo, storia, storia contemporanea, Tatcher, URSS, Winshaw

Jonathan Coe - La famiglia WinshawIn Inghilterra c’è uno scrittore. Dice, ce ne sono tanti. In effetti sì, Jonathan Coe non è l’unico, ma è il prototipo dello scrittore inglese. Uno che ogni volta che presenta un personaggio che parla in prima persona mi fa pensare “questo sono io in versione inglese”. Uno che racconta storie terribili, di denuncia, di disperazione, di formazione ed autoconsapevolezza, con leggerezza e capacità di far sorridere, quando serve, e l’abilità di infilare stoccate e cazzotti in faccia – peraltro anticipandoli adeguatamente, il che da un lato li rende leggermente più facili da assorbire, ma dall’altro comporta che la lettura dei suoi romanzi sia una continua spirale verso il basso, in cui quando si ricomincia a scendere si riparte più o meno dal punto a cui si era arrivati prima.

Ho letto tre o quattro libri di Jonathan Coe. Ne ho altri in coda: li leggerò, ma con calma. Coe non è uno scrittore che si può divorare, non è uno di quelli che ne leggi uno e poi leggi tutti gli altri in sequenza – io non lo faccio con nessuno scrittore, ma ce ne sono alcuni che mi fanno venire la voglia, o almeno che riescono a creare dei filoni o delle saghe che a volte penso di prendere e leggere tutte di seguito, un esempio è Lansdale con Hap e Leonard, un altro è Carofiglio con l’avvocato Guerrieri. Coe non è così. Coe scrive romanzi che riducono le mie certezze in particelle subatomiche, finito uno ho bisogno di una vacanza, altro che cominciarne un altro.

“La famiglia Winshaw” parla degli anni Ottanta in Inghilterra: il periodo della Tatcher, delle lotte contro i lavoratori ed i sindacati, dello yuppismo, dell’America di Reagan che armava Saddam Hussein contro l’Iran, dell’URSS di Gorbachev. Il decennio in cui si sono poste le basi per lo smantellamento dello stato sociale e dei diritti individuali e soprattutto collettivi, il periodo in cui il capitalismo ha smesso di essere un movimento economico per diventare pura avidità, necessità arricchimento a tutti i costi, sulla pelle di tutto e di tutti, 10 milioni di morti domani e chissà quanti l’anno prossimo sono irrilevanti se io posso permettermi un altro cottage nel Sussex.

La famiglia protagonista del romanzo è una sorta di dinastia la cui ricchezza affonda le origini all’inizio del XX secolo e si trova all’inizio del decennio dell’edonismo coi sette membri dell’ultima generazione invischiati in tutto ciò che è potere – politica, media, armi, cibo e via dicendo. Michael Owen, uno scrittore trentottenne in crisi umana e professionale cerca di rimettere insieme i cocci delle ricerche che ha effettuato negli ultimi anni sui Winshaw, dopo che un editore aveva promesso di pagarlo profumatamente per scriverne la storia. La gran parte del libro è dunque basata sull’alternanza tra la presentazione dei singoli membri tramite la penna di Owen e le avventure dello stesso Owen nella Londra a cavallo tra il 1990 ed il 1991, da lui narrate in prima persona. Le ultime 70 pagine sono invece una surreale riunione di famiglia nel vecchio maniero, con Owen presente ma non più narratore, a seguito della morte dell’ultimo patriarca, Mortimer, che ha arrangiato le cose per fare in modo, ça va sans dire, che vecchi scheletri vengano scoperti e antiche colpe espiate.

Un romanzo che, diversamente da altre opere di Coe, non approfondisce più di tanto gli aspetti interiori dei personaggi (anche se quando lo fa picchia giù duro come un macigno), ma preferisce concentrarsi su tematiche socio-politiche: un libro impegnato ed impegnativo, che descrive uno schifo indegno ed indecente, una società senza sbocchi, delle persone prive di qualunque sentimento umano tranne l’avidità, ed un mondo desolante e votato all’autodistruzione, la medesima che vediamo tutti i giorni come naturale conseguenza della storia recente – si può parlare della situazione del Medio Oriente, e degli attentati in giro per l’Europa, ma anche di un sistema economico insostenibile volto a promuovere ed incoraggiare le diseguaglianze e l’esclusione.

Un libro affascinante, spietato, durissimo, quasi un trattato di storia contemporanea, quantomai attuale per chiunque voglia chiedersi dove e quando le cose hanno iniziato ad andare storte. Difficile da leggere senza farsi venire una gastrite, ma necessario.

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La rapina perfetta (The bank job)

01 mercoledì Mag 2013

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema

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Baker Street, cinema, cinematografia, doppiaggio, Emanuela Orlandi, fantapolitica, film, fotografia, Gran Bretagna, Guy Ritchie, Inghilterra, insabbiamento, Inside man, London Tube, Londra, Mediaset, MI5, Notturno bus, prima serata, Rai, rai 4, rapina in banca, recitazione, regia, Roger Donaldson, Sky, Spike Lee, spionaggio, televisione, The bank Job, thriller, tv

La rapina perfettaQuando Mediaset trasmette la Champions League, la Rai si inchina e non propone nemmeno uno straccio di competizione per tentare di portare via pubblico, mentre nelle serate in cui il calcio europeo va in onda su Sky, è più che probabile trovare qualcosa. Ieri era martedì, ed il canale satellitare proponeva il fallito tentativo di rimonta del Real Madrid contro il Borussia Dortmund. La Rai rispondeva con ben due film moderni ed interessanti: “Notturno bus” su Rai Movie e “The bank job” su Rai 4. Avendo già visto da tempo l’ottimo film di Davide Marengo con la Mezzogiorno, Mastandrea e Pannofino, ho optato per la pellicola inglese. Che si è rivelata un filmone.

L’11 settembre 1971 una banca sita in Baker Street a Londra fu svaligiata penetrando nel caveau da un tunnel sotterraneo; sparirono i contenuti di centinaia di cassette di sicurezza, un bottino di milioni di sterline dell’epoca, eppure, nei giorni, mesi ed anni successivi, un silenzio inquietante avvolse la faccenda – in italiano si dice insabbiamento – nonostante dei rapinatori si conoscessero le voci, grazie ad un radioamatore che aveva intercettato le comunicazioni tra la squadra e il palo. Fin qui i fatti storici realmente accaduti e perfettamente noti. Il regista Roger Donaldson in questo film apre lo scenario alla fantapolitica, sviluppando come ricostruzione degli eventi una delle più accreditate teorie su quanto accaduto e fornendo al tutto una forma romanzata.

L’Inghilterra ha un problema: non riesce a far condannare Michael Abdul Malik, uno spacciatore che si atteggia a difensore dei neri inglesi col nome di Michael X, perché possiede potentissime armi di ricatto – le foto di un membro della famiglia reale (viene suggerito si tratti della principessa Margaret) in imbarazzanti attività sessuali. L’MI5 mette allora una donna ammanicata con la delinquenza londinese nelle condizioni di svaligiare la banca dove suppone che le foto siano custodite. Solo che nel caveau, oltre ai soldi, c’è davvero di tutto: foto scattate da una maîtresse che potrebbero risultare altrettanto problematiche per alcuni mebri dei vertici politici britannici, libri mastri con l’elenco dei poliziotti corrotti della città, cose del genere.

Lo sviluppo rimanda ai primi film di Guy Ritchie: nella prima parte del film la rapina viene imbastita ed effettuata, nella seconda si scatena un putiferio brutale e violento che punta verso un finale in cui le varie sottotrame convergono in modo quasi grottesco. La gestione del ritmo è esemplare, ed anche le parti più esplicitamente romanzate (come le questioni personali del capo della banda) si inseriscono alla perfezione senza appesantire o fuorviare il racconto. Londra di fatto non viene utilizzata, salvo per gli appuntamenti tra rapinatori ed MI5 nelle stazioni della Tube, tuttavia la fotografia urbana, il clima, il grigiore della metropoli sono eccezionali. Il film in pratica è un thriller, ma l’azione non prende mai il sopravvento e non distrae lo spettatore dalla vera posta in palio. Ovviamente, avendo visto il film sulla Rai, non sono in grado di esprimere un parere sensato sulla recitazione – se si esclude la considerazione che la parte visiva è molto ben inserita nel contesto. Il dppiaggio in compenso è quello che è: ottimo per alcuni attori, modesto per altri, ma in generale, come spesso accade, troppo impostato per il tipo di recitazione e di personaggi.

Una pellicola apparentemente di intrattenimento, ma che insegue molto altro: interessante, intelligente e orientata anche a raccontare una storia che magari non è vera, ma serve a tratteggiare certe dinamiche di potere. Da un certo punto di vista, mi ha ricordato “Inside man” di Spike Lee. Roba di livello.

Per non parlare della Rai che trasmette due ottime opere cinematografiche la stessa sera. Fosse sempre così…

Una considerazione: il film sviluppa e confeziona in un prodotto narrativo di ampia diffusione una teoria qualificabile come dietrologica di un singolare evento storico, perfettamente verosimile, che gode di un certo credito e che è apertamente diffamatoria nei confronti di un membro vivente della famiglia reale britannica. Grosso modo come se qualcuno decidesse di fare un film con un grosso budget ed attori di primo piano su una qualunque delle teorie dietro la scomparsa di Emanuela Orlandi – che so, magari coinvolgendo le gerarchie ecclesiastiche. Qualcuno ci crede davvero?

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25 aprile – “History will teach us nothing”

25 giovedì Apr 2013

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Ciarlare a vanvera, Farneticare di politica ed economia

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25 aprile, attualità, Berlusconi, Cina, crisi, cronaca, economia, Europa, fascismo, Francia, Germania, guerra, History will teach us nothing, Inghilterra, john maynard keynes, Keynes, liberazione, monetarismo, nazismo, politica, ricorsi storici, riflessioni, riflettiamo, Spagna, Sting, storia

Un buon augurio sarebbe quello di passare una buona liberazione – nel senso di liberarsi di chi ci opprime adesso. Siccome la vedo difficile, a maggior ragione dopo l’ennesima risurrezione del peggiore di tutti a merito di quelli che hanno come unica leva il fatto di essere meno peggio di lui, dobbiamo limitarci a celebrare la ricorrenza di quando l’Italia fu liberata da chi la opprimeva 70 anni fa.

Ché poi stavo facendo una riflessione. C’è una crisi economica contro la quale qualunque intervento sembra impotente se non controproducente. La Germania si è autoproclamata sovrana d’Europa e costringe più o meno chiunque a sottostare ai suoi dettami. L’Italia fa quello che dicono i tedeschi senza discutere, mentre ventilare che bisognerebbe ribellarsi oramai rasenta l’eversione. La Francia, pur da una posizione formalmente non conrapposta a Berlino, balbetta e bofonchia contro l’arroganza tedesca, suscitando talvolta reazioni stizzite. La Spagna ha a che fare con enormi problemi interni e con l’ingerenza della Germania. L’Inghilterra se ne sta per i cavoli suoi e ogni tanto pensa di fare ulteriori passi verso l’isolamento. Gli Stati Uniti sono concentrati su sé stessi, combattono con i loro problemi, e quando si affacciano verso l’esterno accennano che le cose in Europa potrebbero essere gestite diversamente.

Qualcuno mi spiega, esattamente, quali sono le differenze sostanziali tra la situazione politica odierna e quella del 1938?

Ah, eccone una: non c’è l’Unione Sovietica. Una differenza sostanziale, ma mi pare che in 75 anni sia un po’ pochino. In compenso lo spettro rosso che finirà per fagocitare tutto è la Cina. E poi ce n’è un’altra: non c’è John Maynard Keynes a teorizzare un diverso sistema economico. Avvilente.

Sottolineo anche, giusto perché ancora non sono abbastanza depresso, che il 25 aprile non è come il 4 luglio in America o il 14 luglio in Francia: non è una festa che celebra la propria autodeterminazione, il proprio popolo che ha raggiunto autonomamente la libertà. Al contrario, ricorda il fatto che qualcun altro ci ha liberati. Che dire? Attendiamo fiduciosi?

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Tracy Chevalier: “Strane creature”

17 lunedì Dic 2012

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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Chevalier, creazionismo, cultura, diciannovesimo secolo, Elizabeth Philpot, evoluzione, evoluzionismo, Inghilterra, letteratura, libri, Mary Anning, religione, romanzi, scienza, scoperte scientifiche, scrittura creativa, Strane creature, Tracy Chevalier

Tracy Chevalier - Strane creatureTracy Chevalier appartiene alla generazione di scrittori angloamericani cresciuti a pane e scrittura creativa. Un concetto sul quale c’è qualcosa di preliminare da dire: non si tratta solo di una serie di mezzucci per sfornare romanzi in serie, ma di un bagaglio di tecniche volte ad assicurare un intreccio narrativo coerente e ben cadenzato attorno ad un’idea di storia precisa – la parte di tutta faccenda che spetta solo ed esclusivamente all’autore, la cosiddetta creatività. In altre parole, in presenza di una base che intenda raccontare qualcosa, le tecniche di scrittura creativa permettono di tirare fuori un romanzo che non brillerà per originalità, che per chi conosce i ferri del mestiere avrà uno sviluppo schematico e forse prevedibile, ma risulterà ben realizzato e fruibile.

Chi utilizza certe tecniche non potrà mai partorire un capolavoro vero e spiazzante, ma potrà raccontare bellissime storie, perché la bella storia, indipendentemente dai mezzi utilizzati per portarle avanti, dipende dall’idea che sta alla base di un romanzo. C’è certamente chi si appoggia sugli aspetti procedurali standard senza avere qualcosa da comunicare, in altre parole c’è chi utilizza la scrittura creativa senza creatività: in questo caso si tratta sì di romanzi scritti in serie, senza nessun merito specifico.

La Chevalier non è così. Tracy Chevalier è una scrittrice che utilizza tecniche che in America da decenni sono oggetto di corsi universitari, e come tali standard, per dare una struttura coerente alle sue idee, quelle sì, intelligenti e creative.

In “Strane creature” gli argomenti portati avanti non sono nemmeno pochi. Il romanzo è una sorta di biografia romanzata di Mary Anning, la donna che nei primi decenni del diciannovesimo secolo portò alla luce, nel sud dell’Inghilterra, i primi scheletri completi di animali preistorici, e della sua mentore e protettrice nella borghesia locale, Elizabeth Philpot. Il libro affronta tematiche come la teoria dell’evoluzione quando era ancora agli albori e si scontrava con l’assunto creazionista ed il suo corollario dell’immutabilità del creato; parallelamente, si misura con le differenze sociali, in un mondo in cui una giovane popolana ne sa più di studiosi ed eruditi, ma non può nemmeno accedere come spettatrice alle discussioni scientifiche; infine, parla di condizione femminile, in una realtà in cui due donne, una borghese e la figlia di un ebanista, che vanno in cerca di fossili per passione personale e per venderli a sommi uomini di scienza che li studiano e li espongono nei musei, sono disprezzate dalla società come due zitelle alienate.

La storia parte con una poetica e singolare descrizione in prima persona di quando Mary Anning fu colpita da un fulmine durante l’infanzia, e di come la sensazione fortissima causatale da quell’evento abbia per lei rappresentato una sorta di guida verso qualcoa che la portasse ad assaporare emozioni altrettanto intense. Lo sviluppo è poi è narrato alternativamente dal punto di vista delle due protagoniste, con un approccio molto efficace quando è ben gestito, che la Chevalier aveva già utilizzato e dimostrato di saper padroneggiare in passato.

Per ammissione della stessa autrice, la finzione narrativa ha un grosso peso nel libro: l’unico aspetto mantenuto con un certo rigore è la sequenza degli eventi, meno la loro cadenza temporale. La Chevalier sottolinea infatti la difficoltà di romanzare efficacemente una vita quotidiana banale e ripetitiva, il che spiega il ricorso ad intrecci funzionali a dare al libro una struttura moderna. Rimane tuttavia il merito di aver scritto in maniera tutto sommato originale su un tema che oggi viene dato dai più per scontato, mentre negli Stati Uniti il creazionismo – proprio quello del XIX secolo, con l’aggiunta di una serie di teorie strampalate per rispondere alle insignificanti scoperte degli ultimi due secoli e di argomentazioni grottesche – viene insegnato nelle scuole, a volte a scapito proprio delle teorie dell’evoluzione. Il tutto cercando di mettere bene in chiaro cosa significherebbe dal punto di vista sociale tornare indietro di 200 anni sul piano della conoscenza scientifica: una struttura semifeudale, disuguaglianze sociali inaccettabili, la scienza, accessibile a pochi eletti, che per la gente comune diventa una religione esattamente come il cristianesimo o l’islam. In questo senso, un libro puntuale, ben concepito ed intelligente: dopotutto, per più di un aspetto, non è che il mondo si avvii in una direzione precisamente contraria.

Come dicevo, nella scrittura creativa struttura, ritmo e sviluppo sono quasi assicurati dalle tecniche narrative, ma sono le idee dell’autore che fanno la differenza. “Strane creature” non sarà un capolavoro, ma certo è un bel libro.

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Martha da legare

19 martedì Giu 2012

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema

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amicizia, amore, Boston Legal, british, cinema, commedia, film, Inghilterra, inglesi, Joseph Fiennes, Londra, Monica Potter

la locandina di Martha da legare“Quasi quasi mollo tutto, vado all’aeroporto e monto sul primo aereo che parte!” Chi non l’ha mai pensato? Io personalmente filosofeggio sull’argomento più volte alla settimana, ma finora ho sempre lasciato queste speculazioni su un piano puramente teorico. Il regista inglese Nick Hamm ha affrontato l’argomento in un modo un po’ diverso: ha supposto che qualcuno lo facesse e ci ha fatto un film.

Martha, giovane newyorchese carina, un po’ svampita e profondamente delusa dalla propria esistenza, passa dunque dalla teoria alla pratica in questa pellicola (il cui titolo italiano è un penoso gioco di parole sul nome della protagonista, mentre in originale è il più composto “Martha Meet Frank, Daniel and Laurence”) del 1998, che vede Monica Potter – nota anche per un pedante ruolo ricorrente nella prima stagione di “Boston Legal” – nei panni della protagonista, che atterra a Londra per dare inizio al resto della sua vita, sperando di riuscire ad impostarlo in modo migliore di quanto avesse fatto oltre oceano.

La storia è narrata in prima persona dal protagonista maschile, Laurence, interpretato da Joseph Fiennes – no, non Lord Voldemort: Shakespeare – il quale una mattina, alle prime luci dell’alba, si sveglia e suona alla porta del suo vicino di casa psicoterapeuta per sottoporgli un atroce dilemma etico: i suoi due migliori amici – un discografico arrivista, menefreghista e lamentoso ed un attore disoccupato privo della forza di volontà per mettere in atto le sue ambizioni – sempre pronti a beccarsi a vicenda hanno entrambi preso una cotta per la stessa donna, appunto la Martha sbarcata in Inghilterra solo un paio di giorni prima, e lui è nella posizione di poter risolvere la vicenda; solo che non intende farlo, perché dei due amici litigiosi ed egoisti ne ha le palle piene.

Il film è terribilmente inglese. Come tale, racconta con ironia e col ricorso ad un certo numero di scene estemporanee talvolta esilaranti una storia che di per sé certamente si presta ad un’interpretazione in chiave di commedia, ma non suggerisce da sola uno sviluppo smaccatamente orientato al riso. L’insoddisfazione e la disperazione di Martha, una persona disposta a lasciarsi alle spalle tutto quanto, l’amarezza di Laurence, che gli amici continuano a vedere come una sempiterna spalla su cui sfogare le loro talvolta ridicole preoccupazioni, come se lui fosse sprovvisto di sentimenti propri, e financo i fallimenti personali di questi ultimi sono lì per chiunque li voglia vedere. Nonostante questo ci si diverte: perché gli inglesi conoscono tanti approcci alla narrazione delle piccole tragedie della vita, ma quello che riesce loro meglio è riderne.

Un’ora e mezzo gradevole, che certamente concede qualcosa alla retorica, ma che tutto sommato rimane frizzante, e che conduce ad un finale non precisamente sorprendente – dopotutto è pur sempre una commedia – ma comunque preceduto da un paio di rivelazioni inaspettate. Un finale catartico, in cui Laurence, frainteso ed ignorato fino all’ultimo, si prende gioco dei due amici che continuano, ignari, a discutere, di fronte al quale si staglia nitida la domanda: “e io? Cosa dovrebbe capitarmi per farmi prendere e mollare tutto? E che cosa mi aspetterei, una volta partito?”

Amaro, divertente e speranzoso: british.

Un piccolo poscritto: occhio al tormentone. “La padella novella dipinta in blu” non perdona.

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I love radio rock

16 venerdì Mar 2012

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema, Fingersi esperti di musica

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anni sessanta, beat, cinema, cultura pop, disc jockey, dj, film, I love radio rock, Inghilterra, musica, pop, radio, radio pirata, rock, Rolling Stones, Sessantotto

I-Love-Radio-Rock-DVD-CoverFilm inglesissimo e davvero divertente, ambientato nell’Inghilterra della seconda metà degli anni sessanta, con un cast superbo, narra le disavventure di un team di dj di una radio pirata che, da una nave ancorata (ancorata?) nel Mare del Nord, trasmette 24 ore su 24 musica rock in onde medie. Il pretesto da cui prende il via la pellicola è l’arrivo a bordo di un ragazzo, espulso da scuola per aver fumato marijuana. È la madre, amica personale del capitano, a decidere di spedircelo: perché? È immediatamente chiaro a tutti che quello non è il posto per punirlo, né per fargli ritrovare la retta via.

Lo spettatore entra dunque in contatto prima con il bislacco ed imperturbabile comandante (Bill Nighy), poi con una serie di esuberanti disc jockey (l’americano Philip Seymour Hoffman su tutti), e soprattutto col mondo delle radio pirata e con la guerra che le istituzioni britanniche (rappresentate da un rigidissimo Kenneth Branagh) muovevano loro in piena epoca beat. Quello che sorprende è l’età media dell’equipaggio, non precisamente post-adolescenziale, quasi a sottolineare che l’esplosione della cultura pop non ha consentito ad alcune persone di conservare la giovinezza, quanto proprio di ritrovarla.

Il film ha tre diversi livelli di lettura. Innanzitutto si tratta di una commedia che, quantunque un po’ lunga e dal ritmo ineguale, risulta brillante, ben sceneggiata, divertente, con dei personaggi bizzarri e delle scenette estremamente godibili; in secondo luogo, presenta un affresco storico di quella che era la situazione sociale pre-68, con una gioventù rivoluzionaria e caciarona che premeva contro una società conservatrice per emergere e far riconoscere le proprie libertà; infine, è una lunga e appassionata dichiarazione d’amore alla musica rock. In relazione a quest’ultimo aspetto risultano del tutto comprensibili alcune scelte di regia, che penalizzano la narrazione per riprodurre quasi per intero, come se si stesse davvero ascoltando una radio, alcuni classici del periodo, ed alcune palesi, e presumibilmente ignorate di proposito, inesattezze storiche: ad esempio, due scene, prive di date specifiche ma svoltesi durante il 1966, sono rispettivamente accompagnate da “Jumpin’ Jack Flash” degli Stones, e da “Judy in disguise” di John Fred, entrambe pubblicate nel 1968.

La parte finale del film, seguente l’introduzione del Marine Offences Act, che avrebbe impedito di fatto alle radio pirata di continuare ad esistere, è inizialmente gestita come una commedia nera, che scivola verso un finale caotico ed inutilmente enfatico che fa l’applauso facile, ma tutto sommato superfluo. Il film rimane comunque molto gradevole.

Si ride, e parecchio: la sceneggiatura è di alto livello, alcune scene sulla nave rasentano lo strepitoso, certi personaggi, come qualche dj e l’improbabile comandante, hanno una forza comica notevole; e non si sghignazza alle loro spalle, perché le situazioni narrate sono divertenti in primo luogo per chi ci è dentro. La musica, pur fermandosi al periodo precedente all’arrivo di psichedelia e progressive, è bella e coinvolgente. L’affresco storico è molto interessante, soprattutto dal punto di vista sociale, perché aiuta a ricordare cosa vuol dire vivere in una società bigotta e soprattutto quanto è importante avere un catalizzatore, un punto di riferimento per la propria esuberanza: foss’anche semplicemente un dj che trasmette “Let’s spend the night together”, chiude la trasmissione con un “pensa a me quando vieni” (nel 1966!) e si oppone nei fatti ad una legge che vuole zittirlo. Immagino che l’atmosfera e le concessioni alla memoria possano risultare particolarmente piacevoli a chi il periodo narrato lo ha vissuto, ma anche chi è nato e cresciuto dopo può apprezzare l’insieme, che dunque non è fruibile solamente da un pubblico di nostalgici.

Certo, se non si ama il rock è meglio lasciar perdere del tutto.

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