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Archivi tag: malinconia

Hån e L I M @ Largo Venue, Roma, 16/12/2017

20 mercoledì Dic 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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arte, auditorium, basso, bellezza, bello, chitarra, Come Cose, comunicazione, concerto, Dillon, elettronica, empatia, Hån, indie, L I M, Lamb, Largo, Largo Venue, LIM, live, malinconia, musica, musica dal vivo, musica elettronica, musica indie, musica indipendente, musica italiana, Parco della Musica, Roma, vocalist, voce

Sabato scorso, per la prima volta, sono andato ad un concerto per vedere le spalle invece dell’artista principale. Era il concerto di tali Coma Cose, duo di ambiente hip-hop che propone testi imbarazzanti basati per lo più su giochini di parole scontati e vagamente avvilenti; le due musiciste chiamate ad aprire il concerto erano invece tutta un’altra cosa.

La serata si è tenuta in una struttura a me fino ad allora sconosciuta, il Largo Venue, a via Prenestina (tecnicamente, in una traversa della Prenestina) poco prima di largo Preneste: davvero interessante, con una sala moderna da circa 400 posti, dotata di un palco di dimensioni adeguate soprattutto in profondità, un fondo su cui è possibile proiettare dei video, ma soprattutto di un impianto decente, che non viene saturato troppo facilmente nemmeno con suoni elettronici ai limiti dello stridulo e con volumi considerevoli, ed una buona acustica. Tra tre mesi ospiterà l’ottima e musicalmente molto raffinata Dillon, che nel marzo scorso ha suonato nella sala Petrassi dell’Auditorium: dopo questo piccolo sopralluogo, direi che la location è promossa.

Le spalle dei Coma Cose, dicevamo. Per prima è stata spedita sul palco la giovanissima Hån. Volendo semplificare, io ero lì per lei: l’avevo vista il 10 novembre aprire il concerto dei Lamb al Parco della Musica con un mini live elegante ed emotivamente molto onesto, dopodiché mi ero documentato sul suo conto ed avevo scoperto che si sarebbe nuovamente esibita a Roma il 16 dicembre. Quindi, eccomi, di nuovo di fronte a lei ed al tizio che si tira dietro per alternarsi con lui alla chitarra ed alla gestione dell’elettronica; ed ecco di nuovo lei, con una breve esibizione per presentare il suo EP appena uscito. In 5 settimane le cose cambiano poco: Hån si è confermata timida ed elegante, molto schietta ed onesta nella sua comunicazione semplice ed efficace. Belle canzoni, elettroniche, calde e un po’ malinconiche, il suo concerto davvero un gioiellino bonsai tenero e prezioso.

Dopo circa 25 minuti, Hån ha lasciato il palco ad un’altra tizia molto intrigante: si firma L I M, anche lei suona a duo con un tizio che le dà una mano a produrre la notevole quantità di suoni elettronici che formano la sua musica, anche lei la arricchisce con uno strumento elettrico a corde (nel suo caso il basso). La differenza è stata piuttosto forte nel tipo di esibizione.

Come Hån è onesta ed empatica, con una voce calda ed emozionante, che diventa improvvisamente piccola ed insicura quando smette di cantare e si presenta al pubblico, al punto di farmi dubitare che la sua produzione in studio possa essere dello stesso livello di quella dal vivo, così L I M è un’artista completa, sicura e professionale; la sua musica è creativa e pindarica, più moderna di quella della collega. L’amico con cui ero al Largo Venue, diplomato al conservatorio in musica elettronica, ha ammesso di aver trovato difficile capire dove i suoi pezzi andassero a parare, il che può letto come una critica (brani cervellotici e strutturati approssimativamente), ma denota una ricerca di originalità comunque apprezzabile; il concerto è stato efficace sotto ogni punto di vista, da quello sonoro a quello visivo, comprendente un’esibizione quasi al buio mentre sul fondo del palco venivano riprodotti dei video che accompagnavano la musica in modo straordinariamente efficace, mentre chi la eseguiva restava come una specie di ombra in primo piano. L’unica pecca, la voce: affascinante e molto ben utilizzata, ma poco potente.

Anche con L I M, tanta elettronica e parecchia malinconia, ma più complessa e meno diretta. Dal punto di vista puramente emotivo, Hån ha vinto la serata: quando ha smesso di suonare l’istinto più forte era quello di andare ad abbracciarla. Come musicista nel suo complesso e come artista dal vivo, L I M, con la sua ora scarsa di live stentoreo e potente, si è rivelata qualche gradino più in alto: magari è solo una questione di esperienza, ma le idee chiare, e soprattutto la grande consapevolezza su come portarle a casa, si sono viste benissimo.

Due artiste della scena underground italiana, simili per genere ed area musicale di appartenenza, diversissime per approccio alla comunicazione ed all’espressione di sé. Due gioielli da tenere assolutamente d’occhio. Non vedo l’ora che ripassino da Roma.

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Elle Mary And The Bad Men @ Blackmarket Hall, Roma, 22/11/2017

25 sabato Nov 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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Alice Phoebe Lou, Aly Spaltro, Amsterdam, arte, bellezza, Bitterzoet, Blackmarket, Blackmarket Hall, blues rock, comunicazione, concerto, Elle Mary, Elle Mary and the Bad Men, indie, indie rock, Jesca Hoop, Lady Lamb, live, malinconia, Monti, musica, musica dal vivo, musica indie, musica indipendente, Unplugged in Monti, vocalist, voce

Con difficoltà, un annullamento improvviso e successivo miracoloso recupero, abbiamo dunque chiuso la stagione novembrina dei concerti: 4 in circa due settimane, l’ultimo mercoledì 22 sera, quello di Elle Mary And The Bad Men, che presentava il suo primo album in un concerto gratuito molto intimo.

Parlando di concerti che sono andato a vedere volontariamente (cioè, non di gente che mi sono trovato ad ascoltare per caso mentre mi trovavo in un posto che offriva musica dal vivo), probabilmente questo è stato quello con la minore affluenza di pubblico: anche meno delle circa 35 persone che sono con me state travolte da Lady Lamb al Bitterzoet di Amsterdam nel settembre 2015 e delle certamente meno di 50 accorse al Blackmarket a vedere Jesca Hoop nel maggio scorso. D’altra parte, è stato un concerto sofferto, nel senso che era originariamente stato previsto allo stesso Blackmarket da Unplugged in Monti per lunedì 20, poi qualcosa è andato storto ed è stato annullato, e solo mercoledì in tarda mattinata si è saputo che sarebbe stato recuperato con ingresso gratuito al Blackmarket Hall la sera stessa.

Elle Mary, all’anagrafe Elin Rossiter, è una giovane tizia che suona chitarra e tastiere e fa musica con un batterista ed un bassista. La sua discografia consta di un album 9 pezzi erratici dallo sviluppo creativo ed imprevedibile, ma sempre pervasi da un’atmosfera complessivamente malinconica, un cantato liquido e un sound tra l’indie-rock ed il blues-rock. Ricorda vagamente, per sensazioni e timbro vocale, l’ottima Alice Phoebe Lou, transitata per Roma nel settembre scorso, anche lei per un live gratuito con pubblico selezionato, ma un po’ meno di quello di mercoledì sera.

Il Blackmarket Hall è un pub su più piani, con una bellissima sala adibita a micro-live, nella quale sono apparecchiati alcuni tavoli, un bancone ed un enorme divano ad angolo che occupa una quantità inusitata di spazio, e che confina con uno spazio all’aperto ed un’altra sala laterale. Questo per dire che di per sé il luogo dove il concerto si è tenuto è quanto di peggio gestito in termini di spazio, eravamo forse in 25-30 e stavamo scomodi.

Elle Mary sostiene di non scrivere musica con fini di catarsi, ma che lo fa in modo molto consapevole, lentamente; riferisce che le sue canzoni prendono forma dopo processi di razionalizzazione, tanto è vero che il processo di composizione e registrazione del suo disco di debutto è durato tre anni, e che sono molto più una narrazione del suo rapporto con quello che le succede e con la vita in genere che una reazione a mente calda. Niente dilaniamenti alla Lady Lamb, ma consapevolezza e ragionamento.

Elin Rossiter è dunque davvero una persona scura e malinconica, o almeno questo è il suo rapporto col mondo. È anche una persona che per raccontarsi sceglie forme compositive pindariche e creative, con musicisti di livello che le sanno stare dietro e le offrono un accompagnamento all’altezza dei suoi cambi ritmici. Sembrerebbe in questo avere un punto di somiglianza con miss Aly Spaltro, ma ad un ascolto più attento si riconosce che l’umore dei suoi pezzi è costruito molto più razionalmente rispetto alle violente montagne russe del piccolo genio del Maine.

Dal vivo, Elle Mary ha fatto un’ottima, ma davvero ottima, figura. Sicura, capace sia di mantenere elevati standard tecnici vocali ed esecutivi che di esprimere il contenuto emotivo dei suoi brani in modo tranquillo ed intenso. Nonostante il rumoroso bancone del pub a pochi metri da me, dove lo shaker è stato utilizzato con una frequenza sconfortante, ho visto un concerto caldo e coinvolgente da parte di un’artista capace, elegante e tutt’altro che grezza. Non che una comunicazione grezza ed aggressiva sia un male, ma il calore triste e malinconico di mercoledì sera è stato soffice, elegante ed ammaliante. Un concerto molto breve, circa 40 minuti compreso un rapidissimo bis, e davvero peccato, anche se eravamo in pochi avremmo apprezzato e meritato un concerto più lungo e strutturato, magari con qualche inedito. Ma Elle Mary non è il tipo da suonare nulla se non ci ha lavorato sopra a lungo, e dopotutto ha appena pubblicato il suo primo disco.

Bella serata.

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Zola Jesus @ Club Monk, Roma, 14/11/2017

15 mercoledì Nov 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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Circolo degli Artisti, Club Monk, comunicazione, Conatus, concerto, dark, darkwave, elettronica, emozione, esibizione, gothic, indie, indie pop, live, malinconia, Monk, musica, musica dal vivo, musica elettronica, musica indie, musica indipendente, musica live, Mute Records, Nika Roza Danilova, Okovi, passione, Poor animal, Sacred Bones Records, show, Stridulum, Taiga, Veka, Zola Jesus

E così si è conclusa la mia personale sessione autunnale dei concerti a Roma. O almeno così credevo, perché invece si è imprevedibilmente aggiunta una piccola coda, all’inizio della settimana prossima. Per il momento, comunque ha chiuso Zola Jesus, che martedì 14 novembre si è esibita al Monk, noto figliastro del Circolo degli Artisti, luogo dove l’avevo vista ed apprezzata sei anni fa.

Alcune considerazioni sulla carriera di Nika Roza Danilova. Nel 2011 venne a Roma come giovane cantautrice proposta da una casa discografica di piccole dimensioni, la Sacred Bones Records, dalle strumentazioni minimali ed elettroniche, dalle ambientazioni dark e con una solida band alle spalle. All’epoca fece più o meno il tutto esaurito. Poi le cose non le sono andate benissimo: provò il lancio in un giro più grande, passando alla Mute Records, tentando di rimanere ancorata al suo tipo di comunicazione, ma con una veste musicale più spendibile: il risultato fu “Taiga”, pubblicato nel 2014, un album francamente modesto, povero di spunti, per giunta di scarso successo. Dopo il mezzo fiasco, Zola Jesus è tornata alla Sacred Bones e ha ripreso il discorso dove lo aveva interrotto. Il suo ultimo album, “Okovi”, è quello che uno si sarebbe aspettato di ascoltare dopo “Conatus”, una sua evoluzione in chiave techno-pop, con strumentazione più presente ed ossessiva ed analoghi richiami scuri e macabri.

Niente di male, non c’è nulla di sbagliato nel tentare di uscire dalla propria zona di conforto, come non c’è nel non riuscirci, mentre c’è molto merito nel rendersene conto e tornare indietro, e ce n’è ancora di più nell’accettare che la propria dimensione è la nicchia. Infatti “Okovi” è un disco bellissimo, con cui Zola Jesus ha ripreso il discorso con cui ci aveva lasciati nel 2011, solo con un 3-4 anni di ritardo.

Al Monk martedì sera c’erano forse 150 persone, parecchie meno che al Circolo sei anni fa, ed è un peccato. Perché il concerto, ancorché breve, è stato bello, intenso e molto caldo. Ecco, se c’è un aspetto in cui Nika Roza non è rimasta indietro è l’esibirsi dal vivo. L’avevo lasciata trascinante ma incerta, potente ma spaesata, l’ho ritrovata consapevole e convinta, affascinante e coinvolgente, molto più a suo agio con l’idea di comunicare quello che ha dentro.

Abbandonata la band ed abbracciata in modo più completo l’elettronica, Zola Jesus è accompagnata da due tizi: un chitarrista, che per la maggior parte del tempo fa più tappeto sonoro che altro, ed una violista. Per il resto, basi ed elettronica digitale che gestisce lei stessa. Più la voce – quella sì, più matura, controllata, professionale. Bella e potente quando ce n’è bisogno, più dimessa e buia, sempre bassa e molto calda.

Ha suonato parecchio del suo ultimo lavoro, iniziando con la splendida “Veka” (grande entrata in scena, anche se forse un pezzo così avrebbe meritato una collocazione più in avanti, con le persone calde e perfettamente dentro al mood del concerto), e chiudendo, prima dei bis, con “Exhumed”, primo brano del disco dopo il breve intro. Bassi potentissimi, un impianto accettabile, un’acustica più che discreta per le condizioni della sala, sporcata tuttavia da qualche vibrazione di troppo, e tanta energia. Pur con i i suoi brani compassati e malinconici, Zola Jesus non canta ferma e a testa bassa: si muove, si agita, chiama il pubblico (a suon di bestemmie in italiano, grosso modo l’unica cosa che sa dire nella nostra lingua), usa il corpo e tutto quello che ha per esprimersi. La sua musica può essere malinconica e triste, ma non è sconfitta.

L’unica pecca del concerto, la scarsa durata: dopo circa un’ora, i tre musicisti hanno lasciato il palco, per rientrarvi dopo un paio di minuti, suonare un solo pezzo e salutare. Con un repertorio di 3 album (più un semidisperso disco d’esordio realizzato in casa) e 2 splendidi EP, si poteva pescare parecchio di più: che fine hanno fatto pezzi come “Seekir”, “Manifest destiny” e “Poor animal” (brano spettacolare pubblicato sull’EP “Valusia” e poi inspiegabilmente trucidato dalla Sacred Bones nel momento di compilare la scaletta di “Stridulum 2”)?

Peccato. Davvero, Zola Jesus poteva fare di più. Meglio, probabilmente no.

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Alice Phoebe Lou @ Lanificio, Roma, 27/9/2017

28 giovedì Set 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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Alice Phoebe Lou, bellezza, bello, blues, cantante, concerto, duo, elettronica, imdie music, indie, Lanificio, malinconia, musica, musica dal vivo, musica elettronica, musica indie, musica indipendente, Roma, vocalist, voce

Un’amica mi ha inseguito per mesi con la richiesta, molto persistente e motivata, di dare una chance da una giovane musicista sudafricana con base a Berlino di nome Alice Phoebe Lou. Io però a volte sono scemo e l’ho più o meno ignorata, aiutato dal fatto che non è nemmeno molto semplice ascoltare qualcosa di suo su Internet, perché questa tizia è molto meno che poco conosciuta e molto più che indipendente. Poi la mia amica, Teresa, tre settimane fa mi ha comunicato che detta Alice Phoebe Lou avrebbe suonato al Lanificio il 27 settembre, peraltro gratuitamente. Intendiamoci, Teresa ascolta ottima musica, quindi ci sarei andato anche se avessi dovuto pagare una decina di euro, ma così decidere è stato davvero facile.

Attorno alle dieci di sera (perché a Roma cominciare un concerto ad un orario compatibile con la sveglia di chi attacca a lavorare alle otto di mattina è inconcepibile) uno scricciolo biondo e bellissimo si è sistemato sul palco con una chitarra elettrica ed un tizio circondato da tastiera, percussioni elettroniche e laptop, e ha iniziato a cantare. C’era pure un metallofono di lato, ma quello serviva alla Lou quando non usava la chitarra. E per l’appunto: dicevamo che sono scemo.

I primi brani sono stati di impronta decisamente blues, e sentirli accompagnati da una strumentazione sostanzialmente elettronica aveva un che di curioso, ma decisamente piacevole ed originale. Alice Phoebe Lou li ha cantati con una voce cavernosa che ricordava vagamente quella di Lhasa. Tanta malinconia, in una serata in cui la stessa artista ha dichiarato che si sentiva un po’ giù a causa di un brutto periodo a livello personale, e che il suo approccio alla serata ne avrebbe risentito. Poi, via via che la serata è andata avanti, la musica ha mantenuto il suo colore scuro, ma ha anche visto momenti più sciolti e rilassati. Avvicinandosi alla fine del concerto, la bella Alice Phoebe ci ha tenuto a farci sapere che il cantato dilaniato e profondo non è l’unica cosa che sa fare, aumentando volumi ed altezze e segnalandosi per una voce duttile e bellissima e per una capacità comunicativa tenera e potente, pur rimanendo sempre su sonorità complessivamente blues e su un mood malinconico, ma certo meno dimesso. Difficile rimanere impassibili – anzi, difficile non innamorarsene.

La Lou ha ricordato svariate volte agli astanti che il duo con un tizio, tale Matteo, che si fa il mazzo per suonare la qualsiasi mentre normalmente è un bassista, non è esattamente il suo approccio usuale alle esibizioni dal vivo, perché normalmente suona in una band da cinque elementi. Ha inoltre più volte sottolineato come il concerto fosse stato provato poco e si basasse molto su improvvisazione ed umore, fino al punto che verso la fine si è accorta di aver saltato un brano. L’insicurezza, addirittura quasi un senso di inadeguatezza nel dover suonare in un modo diverso pezzi che sono stati concepiti per la band, erano percepibili e, per chi ascoltava rapito un concerto in cui c’era tutto quello che serviva – buona musica ed una che oltre a saperla suonare la suonava con grandissima emozione e partecipazione – risultavano incomprensibili. L’aspetto curioso della faccenda è che al momento lei ha pubblicato tre dischi: un EP ed un un album registrati in studio ed un live, a duo con lo stesso Matteo.

È stato un concerto sensazionale ed adorabile (o forse il concerto è stato sensazionale, Alice Phoebe Lou è stata adorabile), è durato troppo poco e mi ha lasciato con l’amaro in bocca il fatto di non aver dovuto pagare per vederlo e non aver potuto nemmeno pagarla comprandole un disco perché non si era tirata dietro il materiale. In compenso l’ho ringraziata, le ho detto che sicuramente comincerò a seguirla: lei mi ha risposto che tornerà presto a Roma, stavolta con la band; al che le ho risposto che questo continuo quasi scusarsi per la strumentazione minimale era fuori luogo, perché aveva fatto un’esibizione meravigliosa, soffice e intensa.

Davvero una tizia straordinaria. Speriamo torni presto sul serio.

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Jesca Hoop @ Blackmarket, Unplugged in Monti, Roma

26 venerdì Mag 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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bellezza, bello, Blackmarket, City Bird, concerto, Hunting my dress, indie, indie rock, Jesca Hoop, KEXP, live, malinconia, Memories are now, Monti, musica, Musica a Roma, musica dal vivo, musica indie, musica indipendente, musica live, Rachael Yamagata, Roma, Snowglobe, Tulip, Unplugged, Unplugged in Monti, vocalist, voce, voce e chitarra

Ieri sera, 25 maggio 2017, Jesca Hoop ha tenuto il suo primo concerto in Italia nella singolare ma terribilmente affascinante atmosfera del Blackmarket, a via Panisperna, Roma, organizzato da Unplugged in Monti. Questo è, di per sé, un elemento di profonda tristezza: è terribile che una come Jesca Hoop, una splendida signora di 42 anni portati meravigliosamente, che ha alle spalle una carriera decennale, 4 album solisti, uno in collaborazione, qualche EP, un paio di dischi di rivisitazioni ed un’attività live che la pone tra quelle che farebbero venire la pelle d’oca ad una lastra di vetro, a Roma non riesca a smuovere un pubblico superiore alle 50-60 persone, di cui diverse più per il richiamo dell’organizzatore (superlativo come sempre, comunque) che dell’artista. Sconcertante che una parte dei presenti, una mezza dozzina di persone chiaramente capitate lì per errore, se ne sia andata prima della fine e non particolarmente incoraggiante che ci fosse chi ogni tanto abbandonava il suo posto per andare a prendere da bere nella sala accanto.

C’è da dire una cosa, comunque: Jesca Hoop non la conosce nessuno perché non è promossa. Non si è nemmeno mai esibita su KEXP, la radio di Seattle che oramai è diventata un faro nella divulgazione della musica indipendente. Ma ieri, alla fine del concerto, quando con la sua mise vaporosa si trovava fuori dal Blackmarket a fare quattro chiacchiere col suo pubblico ed a firmare dischi e poster, quelli entusiasti erano la maggioranza schiacciante.

Il concerto, dicevamo. Siccome al Blackmarket devono smontare tutto entro una certa ora, Jesca Hoop è stata mandata sul palco alle nove e un quarto. Lo ha raggiunto con qualche difficoltà, visti l’ingresso unico per spettatori ed artisti, un vestito ingombrante e le sedie e gli sgabelli per il pubblico sistemati in sala stile Tetris. Erano in due a suonare: Jesca, con voce e chitarra, e Corona, con chitarra, bodhran e voce. La qualità vocali della Hoop sono quelle che sono: discreta estensione, buon controllo, potenza scarsa. Anche le sue virtù come strumentista risultano adeguate ma non molto di più. Ma il punto non è questo.

Il punto è che Jesca Hoop è oltre tutto ciò. Lei compone, scrive, suona, canta e si esibisce perché ha bisogno di farlo e perché lo sa fare. È una delle tante prove viventi che non conta quanto sei capace di fare, ma come lo fai. Jesca Hoop non sa cantare e suonare nel senso che ha i mezzi tecnici di una professionista di livello, ma nel senso che sa creare un’atmosfera e riempirla di sé stessa e delle sue emozioni, sa farlo in modo originale e creativo e sa coinvolgere chi ha davanti in modo immediato e diretto, ma non banale e scontato.

Chi è andato al Blackmarket a cercare la perfezione esecutiva, l’originalità sonora, la complessità compositiva, ieri è rimasto deluso. Chi ci è andato alla ricerca di una serata intensa, elegante, soffice e malinconica, si è trovato a casa. Una dozzina di brani da svariati lavori, alcuni dalla sua ultima pubblicazione, “Memories are now”, ma anche da “Hunting my dress” (una “Tulip” sontuosa), datato 2009, e un paio dal preziosissimo “Snowglobe” (“City bird”, cazzo!), EP del 2011; in qualche modo pezzi unici per ispirazione, umore e scelte di produzione, eppure ieri sera sarebbe stato difficile, per uno che non l’aveva mai sentita, riconoscere un pezzo recente da uno più datato: semplicemente, Jesca Hoop si è calata in un’atmosfera, un sentimento dolce, scuro e carezzevole e lo ha dipinto aggiungendo una pennellata dopo l’altra, cullando e coccolando i suoi ospiti.

Avrebbe potuto continuare a suonare per sei ore, nessuno si sarebbe stancato. Non è una musica che sfinisce, quella di Jesca Hoop, e lei non è il tipo di artista che mette chi la ascolta davanti all’abisso. Rachael Yamagata lo fa, e da un suo live si esce a pezzi. Jesca ti coccola, ti seduce e ti porta in un mondo notturno, vagamente dimesso e bellissimo. E fa lo stesso quando parla – sottovoce, con classe ed eleganza, riesce ad essere fine persino quando ti da indirettamente del “motherfucker”.

Non si esce distrutti da un concerto del genere. Si esce sedotti, riempiti, rilassati, anche se si avrebbe voluto avere di più. Si esce a fare due chiacchiere, tra di noi e con lei, a stringerle la mano ed a ringraziarla per la serata, bellissima e sottile, dolce e memorabile. Un concerto meraviglioso, un’artista meravigliosa.

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Lhasa

26 martedì Apr 2016

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ansia, bellezza, blues, cantante, capolavoro, CD, disco, dolore, fascino, folk, hippy, indie, Lhasa, Lhasa De Sela, malinconia, musica, musica indie, musica indipendente, Nick Cave, pace, paura, suicidio, tristezza, vocalist, voce

Lhasa De Sela - LhasaQualche giorno fa, passando dalla libreria in via Nazionale a Roma, fu Mel Bookstore, fu IBS, attualmente IBS Libraccio (con relative tessere fedeltà passate sequenzialmente a miglior vita), andai a dare una scorsa al reparto dei cd usati e la mia attenzione fu attirata da un CD: copertina color cartone, con l’immagine stilizzata di una donna che sorride, una sola parola di cinque lettere scritta in maiuscolo con carattere da macchina da scrivere – “Lhasa”, il nome della capitale del Tibet. L’avevo già visto da qualche parte, ma non ricordavo dove e a cosa lo associavo, quindi non azzardai l’acquisto a scatola chiusa, nonostante il prezzo irrisorio (7 euro), anche perché l’acquisto dei CD è per me oramai un problema di spazio molto più che di prezzo.

Lhasa, ovviamente, oltre che una città, è una persona. O più precisamente era, visto che la povera Lhasa De Sela, cantante blues-folk americana di origini messicane e basata in Canada, è morta di cancro al seno il primo gennaio 2010 all’età di 37 anni, dopo una vita da hippy vera – rimasta senza nome fino ai cinque mesi, educata a casa da una famiglia in continuo spostamento, raminga tra Stati Uniti, Canada e Francia, autrice di tre dischi pubblicati uno ogni sei anni, in mezzo tournée ed altro compresi lavori nel circo con le sorelle.

Il disco che porta il suo nome è datato aprile 2009, otto mesi prima che se ne andasse. Dalle informazioni biografiche trovate su internet, non si capisce bene se si tratti di un disco di addio (si parla di una battaglia di 21 mesi contro la malattia, che suggerirebbe di sì, e di una diagnosi ricevuta dopo aver chiuso le registrazioni dell’album, ma prima di pubblicarlo, che suggerirebbe di no), certo è che lo sembra. I colori della copertina, la grafica scelta per il suo ritratto, l’espressione sorridente e pacifica, il suo nome stampato in alto a destra, tutto pare concorrere a dipingere una specie di de profundis, un ricordo “in loving memory”.

Per non parlare della musica. Lhasa ha (aveva) una voce bassa, profonda, intensa, liquida e triste, ed in questo disco l’ha usata per brani lenti, a volte minimali, spesso dimessi e mai comunque pieni e travolgenti. Dodici pezzi, una cinquantina di minuti, nessuna concessione alla masturbazione strumentale, né a quella vocale, il cui demone ogni tanto si impossessa di chi fa blues. Intensità, malinconia, bellezza. Un disco un po’ da taglio delle vene, ma non come quelli di Nick Cave, quelli da metter su alle tre del mattino, cadere in depressione e suicidarsi (citazione da “E morì con un felafel in mano”), quelli del dolore straziante e finanche glorioso, no: di quelli che ti fanno guardare nell’abisso, lentamente, inesorabilmente, che ti spogliano, ti mettono di fronte a te stesso e ti fanno pensare che in fondo si potrebbe scivolare via silenziosamente, in silenzio, in pace.

O forse no. Forse non ne vale la pena, non fosse altro che per continuare ad essere cullati dalla voce di Lhasa, dal suo cantato, dalla sua musica, dalle sue melodie malinconiche, disperate e bellissime, affascinanti, profonde.

Dopotutto sono proprio questo, la tristezza, la malinconia, ed è questa la loro bellezza e la loro importanza. Qualcosa che ti lega alle tue emozioni, anche le più dure, e ti permette di viverci, di viaggiarci assieme senza essere sopraffatto dal dolore, dalla paura, dall’ansia e senza seppellirle, fuggirle, rifiutarle furiosamente fino a quando non presentano il conto. A questo servono, artisti come Lhasa De Sela, opere come il suo disco eponimo: ad accarezzarti mentre guardi nell’oscurità, a farti vedere che c’è una luce, finanche ad essere quella luce, che ti accompagna, ti accarezza e ti guida. Un album sensazionale, meraviglioso.

Un album che, ovviamente, ora fa parte della nutrita schiera di CD che non so dove mettere.

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Casualties Of Cool live alla Union Chapel, Londra

05 martedì Apr 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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Anneke Van Giersbergen, Arjen Lucassen, Ayreon, Casualties Of Cool, Ché Aimee Dorval, Ché Dorval, concept album, concerto, dark, Devin Townsend, Devin Townsend Project, Johnny Cash, live, Londra, malinconia, musica, musica live, rock, Strapping Young Lad, The human equation, Union Chapel, youtube, Ziltoid

Prima che giustamente lo rimuovano per violazione del copyright (soprattutto essendo facilmente reperibile in commercio l’edizione originale del disco contenente il DVD), consiglio a chiunque passi su queste pagine di dare un’occhiata al concerto integrale di Casualties Of Cool riportato qua sotto.

Casualties Of Cool è un progetto nato dalla mente di Devin Townsend, vulcanico genio del caos, membro di band di metal estremo come gli Strapping Young Lad, signore dei grunts e dei growl che utilizza diffusamente ed in modo quantomeno originale, autore di opere metal-progressive incentrate su uno strano tizio alieno, Ziltoid l’onnisciente, vocalist su “The human equation” di Ayreon nella parte della rabbia per la quale Lucassen gli ha fatto scrivere le partiture ed il testo, animale da palcoscenico fortemente emozionato nel suonare le sue composizioni, fan, come chiunque dotato di orecchie funzionanti, della voce di Anneke Van Giersbergen.

Solo che Casualties Of Cool non è un progetto metal, non è un progetto caotico, grunts e growl non c’entrano quasi niente. Townsend l’ha descritto come “Johnny Cash infestato dai fantasmi”: sarebbe un ottimo motivo per tenersene alla larga, solo che lui è un genio che sa scrivere e soprattutto sa interpretare musica, ed in più c’è una vocalist ospite sostanzialmente sconosciuta, tale Ché Aimee Dorval, che ha una voce da pelle d’oca, calda, elegante, suadente e meravigliosa, è capace di usarla e Townsend è consapevole di quello che vuole da lei.

Su youtube di Casualties Of Cool c’è anche il disco in versione integrale – da tempo, e non è mai stato rimosso. C’è addirittura il secondo disco dell’edizione speciale, che di fatto è un altro album, con le medesime atmosfere. Ma se uno deve investire del tempo a scoprire un progetto davvero molto strano, evocativo, misterioso e terribilmente scuro, tanto vale che se ne veda l’edizione dal vivo. L’album è eseguito sostanzialmente in forma integrale, con qualche avvicendamento e qualche variazione nella scaletta (il che per un concept album è singolare) e, come dicevo, Townsend sul palco ci sa stare e sceglie strumentisti preparatissimi che lo completano senza fargli ombra; inoltre, in questo caso, ha al suo fianco una ninfa meravigliosa, a cui lascia spesso il centro dell’attenzione e che a volte prende letteralmente il volo, come ad esempio sul finale di “Moon” (attorno al quarantesimo minuto), sovrastando tutto quello che ha attorno, davanti, dietro, sopra, sotto e chissà in quale altro posto. Pazzesca, incredibile.

Veramente, il concerto va visto, va ascoltato e va assaporato. Anche se le riprese video sono quello che sono (in effetti bisognerebbe ridurre la luminosità ed aumentare saturazione e contrasto). È davvero necessario ascoltare le atmosfere create da Townsend e sviluppate sul palco da una grande band, lasciarsi trasportare nel suo mondo mai come in quest’opera desolato e malinconico, nella sua musica per una volta suadente, notturna, evocativa, ma soprattutto è necessario innamorarsi perdutamente di Ché Dorval, rimanere imbambolati a chiederle di andare avanti, di non fermarsi mai, di continuare ad entrarci dentro ed a scuotere, rivoltarci l’ anima.

Guardatelo.

 

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Unplugged in Monti: Kristin McClement @ Black Market, 2/2/2016

03 mercoledì Feb 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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bellezza, bello, Black Market, canzoni, concerto, creatività, eleganza, indie, intimità, Julia Holter, Kristin McClement, live, Luke Winslow-King, malinconia, McClement, Monti, musica, musica indie, musica indipendente, musica live, Pursue the blues, ritmo, Roma, The wild grips, Unplugged, Unplugged in Monti, WInslow-King

Non conoscevo Unplugged in Monti fino ad un mesetto fa. Ci ha pensato un’amica ad introdurmi nel magnifico mondo dei private concert nel primo rione della capitale, segnalandomi per il 2 febbraio Kristin McClement, questa artista british creativa e malinconica dalla voce bassa e i toni scuri.

Al Black Market, in via Panisperna. Non c’ero mai stato. La sala, oltre il pub, è piccolissima, contiene una sessantina di persone sedute, su pouff nelle prime file, su sedie stipate da metà in poi. Si sta un po’ stretti, ma la sensazione di intimità è fortissima. I volumi sono contenuti e l’idea è proprio che si stiano facendo quattro chiacchiere con chi sta sul palco. C’era anche gente in piedi.

Ha aperto la serata un tizio che al Black Market si era esibito lunedì, tale Luke Winslow-King. Un po’ country, un po’ blues, era sul palco con una chitarra acustica e un partner che lo accompagnava con una seconda acustica, spesso suonata con tecnica slide, davvero bravo. Simpatici, anche nel tentativo di coinvolgere il pubblico, ma proprio non è il mio genere. Per quello che mi riguarda, può andare bene per un quarto d’ora quando quello che suona sa quello che fa, non di più. Winslow-King è rimasto sul palco per circa 50 minuti, poi ha salutato, lasciando la sala a Kristin McClement. Lei è arrivata dopo pochi minuti, con le sue chitarre, una acustica ed una elettrica (ma come, non era “Unplugged”?) ed un batterista che suonava anche la tromba ed una tastiera. D’altra parte, il suo finora unico album, “The wild grips”, di suoni ne ha davvero parecchi, sarebbe stato un peccato troncare tutto limitandosi a voce, acustica e percussioni.

Incredibilmente, nonostante la McClement fosse il clou della serata, la sala ha perso pubblico – e veramente non me ne capacito. Lei ha iniziato in sordina, nel senso che per qualche secondo proprio non si è capito che il concerto stava effettivamente iniziando, il profilo dell’attacco è stato talmente basso (con anche una cassa momentaneamente fuori uso) che sembrava lei ed il factotum al seguito stessero accordando gli strumenti.

Il concerto, un’ora abbondamente in cui Kristin ha suonato praticamente tutto “The wild grips” e la title track dall’EP “Pursue the blues”, è stato la quintessenza dell’intimità. Un po’ come il disco, per dire la verità, e non è per niente scontato che un musicista sappia ricreare dal vivo quello che costruisce in studio, con più gente oltre che con più tempo. Nel pub la gente beveva e chiacchierava, noi eravamo riuniti ad ascoltare una donna che cantava, parlava di sé e si raccontava con calma ed eleganza, quasi sottovoce. Fuori c’erano quelli che si divertivano, dentro noi, attorno ad un focolare, a raccontarci ed a lasciarci coinvolgere da una tizia che ha tanto, tanto da dire.

Un concerto scuro e personale, dei brani intensi e toccanti. Kristin McClement ricorda vagamente una versione cupa e dimessa, soffice e malinconica di Julia Holter. Scrive brani raffinati e complessi, utilizzando tempi insoliti e sincopati e variazioni ritmiche, melodiche e sonore; nella sua musica c’è molto di più che semplici “canzoni”, non c’è la ripetizione di strofe e ritornello, ma soprattutto c’è un faro imprescindibile, quello di raccontarsi, di comunicare, di esprimersi e di coinvolgere chi è disposto ad ascoltare. Kristin McClement non è una che cerca di mostrarsi originale perché originale lo è veramente, e non è una che strilla e sgomita per farsi ascoltare, perché vuole raggiungere chi vuole sentirla e lasciarsi cullare pacificamente dalla sua musica, dai suoi testi e dalla sua bellezza.

Serata superba, impreziosita da una coda in cui Kristin ha venduto e firmato qualche copia del suo materiale (CD ed EP, niente vinile mannaggia!) e scambiato impressioni con chi voleva parlare con lei della sua musica. Gentilissima, sorridente, disponibile, interessata e sinceramente colpita dalle parole di apprezzamento che riceveva.

Che dire? Grazie a Teresa per avermela fatta conoscere, grazie al Black Market, ad Unplugged In Monti e soprattutto grazie a Kristin McClement per un concerto morbido, elegante e malinconico. Bellissimo.

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Someday

08 venerdì Mag 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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arte, bellezza, bello, capolavoro, Claire Voyant, darkwave, divino, dolcezza, dream pop, dreampop, gothic, He is here, indie, Love is blind, malinconia, musica, musica indie, Silence, Someday, Time and the maiden, tristezza, Victoria Lloyd, vocalist, voce

Silence
He is here
Close to me
Warm
Not like me
Love is blind

Claire VoyantSembra una poesia: verso libero, nessuna rima, una piccola serie di immagini crude e dolcissime, l’abbandono ad un sentimento totale e soverchiante, e chiusura col cliché per impreziosire il quadro. Ma non è una poesia: è la tracklist di un disco, dal brano numero 5 alla chiusura. “Love is blind”, uno dei capolavori del gothic/dreampop, dopo due album in qualche modo diversi ed in qualche modo contigui, entrambi altrettanto se non addirittura più belli, di una delle band migliori del genere, i Claire Voyant: eterei, malinconici, ariosi e cupi, ventosi, autunnali. Una band raffinata e discreta, elegante ed incorporea, notturna e morbida, un trio di folletti, musicisti capaci ed artisti veri, capitanati da una vocalist impossibile, una voce inconcepibile, indescrivibile, mostruosa, una potenza sbalorditiva, una delicatezza struggente, una duttilità sconfinata, un calore soffice ed avvolgente, una capacità espressiva sconcertante, devastante, che i suoi compagni d’avventura sfruttano nei suoi toni più scuri, vellutati e velati e nei suoi angoli più forti e drammatici, senza essere mai forzati o patinati.

Victoria Lloyd non è una grande vocalist. Victoria Lloyd è la voce. Tutta la voce, l’alfa e l’omega. È inimmaginabile che possa esistere qualcuno più bravo di lei, qualcuno in grado di toccare corde oltre le sue; è finanche incomprensibile che possa esistere lei. Ci può essere qualcuno che canta cose più coinvolgenti di lei, ma qualcuno che canta in modo più coinvolgente di lei è solo e semplicemente escluso. Se esiste un’espressione terrena della divinità, è la voce di Victoria Lloyd, è Victoria Lloyd che canta: bella, straziante, travolgente, dilaniante, assurda, impossibile, meravigliosa. Bellezza e intensità, dolore ed estasi allo stesso tempo. La vita. L’universo e tutto.

Come ogni divinità che si rispetti, la voce di Victoria Lloyd illumina il mondo da un’altezza irraggiungibile per chiunque altro, mentre l’umanità può solo avvicinarsi a quello che lei fa con disinvoltura, ma si manifesta in tutta la sua inconcepibile potenza solo di rado e con un preavviso sottile. E quando succede non ci si alza più.

Ascoltare lo special di “Love the giver” è come farsi strappare il cuore dal petto. Una dimensione drammatica intensissima, elevatissima, insopportabile. È semplicemente troppo, è anche difficile capire davvero cosa sta succedendo e, dopo, conservare un’impressione nitida di ciò che si è attraversato, del fuoco in cui si è stati gettati, si è solo frastornati e sconvolti, da un lato desiderosi di averne ancora, dall’altro stravolti, esausti e quasi perplessi dopo venti secondi di tutto. Poi ognuno ha i suoi punti deboli, ognuno può scegliere da cosa farsi abbagliare e distruggere, si potrebbe dire lo stesso per il tempestoso il ritornello di “Her”, per quello drammatico e pomposo di “Silence“, per il solenne e tragico finale di “Elysium”, per i tenerissimi eppure strazianti bridge ed ultimo ritornello di “He is here” e per la stentorea ed dolorosamente amara chiusura di “Someday” – tutti, tutti frammenti paralizzanti a cui Victoria Lloyd conduce per mano attraverso minuti meravigliosi: la divintà non si palesa mai all’improvviso.

Già, “Someday”. Il finale di “Someday”. Una canzone distesa, sei minuti e mezzo, con strofe lunghe dallo sviluppo lento, quasi prolisso, cantate in modo triste e lamentoso, quell’improvviso alzarsi e calare sul fine verso che è un po’ il marchio di fabbrica dei migliori Claire Voyant, ed interrotte da un ritornello secco e potente, cupo, disperato, un crescendo che tende lentamente, diffusamente, inesorabilmente alla chiusura gloriosa e dilaniante, magnifica e disperata. Una fine che viene prima vagamente evocata, poi suggerita, tratteggiata, e quindi, quando si attende solo l’esplosione, eccola che parte, che deflagra, che mostra lo sfogo, il grido devastante, alla nota che chiude con la catarsi, tradita e spezzata, con un calo dimesso e spiazzante, l’urlo si strozza, rimane in gola, disorienta, ferisce, abbandona.

Il paradigma del mondo in un paio di minuti. Il divino è nei dettagli, e chi se non Victoria Lloyd dovrebbe saperlo?

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Cat Power: “The greatest”

17 mercoledì Dic 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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album, bellezza, bello, canzone, capolavoro, Cat Power, Chan Marshall, dark, disco, indie, indie rock, malinconia, Moon pix, musica, musica indipendente, recensione, soul, The greatest, You are free

Cat Power - The greatestChan Marshall, in arte Cat Power, è un’icona nell’ambiente della musica indipendente, soprattutto in America. Capita quindi spesso, frequentando siti e forum che si occupano dell’argomento, di leggere recensioni, presentazioni ed opinioni sui suoi dischi, sui suoi concerti e su di lei in generale.

“The greatest” è il suo album del 2006, il primo di inediti dopo 3 anni, e l’ultimo per circa 6. Nel suo curriculum segue nell’ordine “Moon pix” e “You are free”, considerati generalmente i suoi capolavori, le sintesi della sua musica, tanto che sono i due titoli che vengono solitamente consigliati urbi et orbi a chi vuole le si vuole avvicinare ed a chi la vuole approfondire. “The greatest” rappresenta anche una leggera svolta nella carriera di Chan Marshall, che con questo album passa ad un suono leggermente più pieno, più da band, con una sezione di fiati ed un approccio generale che la avvicinano vagamente al soul con qualche venatura jazz.

Quando si parla di questo disco normalmente la sintesi delle opinioni che vengono espresse è “bello, ma…”. Bello, ma non all’altezza dei suoi capolavori. Bello, ma distante dal tipico stile Cat Power. Bello, ma non convincente. Bello, ma meno intimista dei suoi lavori più riusciti. Bello, ma discontinuo, con due capolavori come pezzi d’apertura e di chiusura, ed un corpo meno brillante.

Tutto vero. Solo che per me “The greatest” è bello e basta.

Il pezzo introduttivo, la title track, è qualcosa che semplicemente non si può descrivere a parole, una canzone che rasenta la perfezione, probabilmente da sopra. Tre minuti e ventidue secondi di bellezza, di emozione, di sensualità, di struggente malinconia, di profondità. “The greatest” è un pezzo che vale una carriera, forse una vita: una persona capace di scrivere un brano così è giusto che faccia la musicista, che dedichi sé stessa a comporre, suonare e cantare, anche dovesse non scrivere mai più nient’altro di paragonabile. Anche il finale è fantastico, ed a questo proposito la supposta discontinuità del disco altro non è che un semplice limite umano: non esiste un album di canzoni che sia composto da 12 pezzi del livello di “The greatest”, non esiste una persona in grado di scrivere 12 brani del genere di seguito, se esistesse sarebbe il dio della musica, ed è comunque tutto da vedere se un album così sarebbe poi davvero fruibile.

Il problema di “The greatest” inteso come disco, semmai, è che il capolavoro, il pezzo sopra a qualunque altra cosa, si trova all’inizio dell’album, e quando raggiungi la perfezione subito poi non puoi che scendere. E non hai nemmeno il tempo o il modo di far avvicinare chi hai avanti a ciò a cui arriverai. Per questo, forse, il prosieguo delude la gente: come fai, quando hai perso la verginità con miss college, ad accontentarti delle tue carinissime compagne di corso? Ti ci vuole un po’ per riprenderti: non è semplicissimo, se parliamo di un disco di 42 minuti.

Però le 10 canzoni successive sono in gran parte belle davvero: scure, malinconiche, a volte un po’ dimesse, alcune bizzarre con i loro fraseggi dei fiati, ma quasi sempre seducenti, affascinanti – mentre l’undicesima, “Love and communication” ritorna prepotentemente in cima, bellissima, sensuale. Ma non è questo esattamente il punto.

Il punto è che “The greatest” sarebbe un bel disco anche senza la title track, una canzone di una tale bellezza che riesce sovrastare inesorabilmente il resto. Con la title track come primo pezzo, ondeggia tra un bell’album impreziosito da una gemma quasi dolorosa per quanto è speciale e per quanto poco dura, ed un costante sottofondo di amarezza perché, quando lo si ascolta, dopo i primi 30 secondi si è convinti di essere stati presi e trasportati in un’altra dimensione, ed invece siamo ancora sulla terra, nel mondo reale. E nel mondo reale i dischi, soprattutto quelli di persone strane ed un po’ problematiche, sono tante cose, ma certo non sono perfetti, e sono interessanti proprio per questo: per le storie che raccontano, per le persone che ci sono dietro e che parlano di sé. Qualcosa che Chan Marshall sa fare davvero molto bene.

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