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Irlanda

16 martedì Gen 2018

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Fingersi esperti di musica

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Achtung baby, addio, anni 90, anni novanta, Bono, britpop, Celti, costume e società, Cranberries, Dolore O'Riordan, Dublino, Eire, Enya, folk, indie, indie rock, Inghilterra, IRA, Irlanda, Limerick, musica, musica celtica, musica folk, musica pop, musica rock, O'Riordan, politica, pop, pop-rock, RIP, rock, Roddy Doyle, società, storia, storia contemporanea, The Commitments, The Edge, The Fly, U2, Ulster, Zombie, Zoo TV

Era un po’ che pensavo di scrivere questo articolo: mi ritrovo a farlo oggi, per commemorare la povera Dolores O’Riordan e ricordare perché una come lei è stata una presenza fondamentale per la mia generazione.

Per chi c’era e se lo ricorda o per chi se lo è fatto raccontare, verso la metà degli anni Novanta improvvisamente ha cominciato ad andare di moda l’Irlanda. Dublino e le coste atlantiche dell’Eire hanno iniziato di colpo ad esercitare un fascino enorme su tutta Europa e tutti volevano, dovevano andarci. Ovviamente non era sempre stato così. L’Irlanda, fino a pochi anni prima, veniva vista da un lato come un paese povero, dall’altro come un luogo pieno di problemi, con l’Ulster e l’IRA, con la gente armata per strada ed i combattenti cattolici che mettevano le bombe nei locali di Londra.

Gli irlandesi più famosi del mondo, all’epoca, erano ovviamente gli U2: una band al culmine della fama, che veniva dritta dal capolavoro berlinese “Achtung baby” e dallo Zoo TV, da due anni di tournée trionfale e magnificente negli stadi di tutto il mondo, incarnati dal personaggio di The Fly, quasi un extraterrestre, che negli ultimi anni si era messo metaforicamente sulle barricate contro la guerra nella ex Jugoslavia e che in passato aveva celebrato personaggi come Martin Luther King e cantato la povertà negli Stati Uniti sotto Reagan.

Per il resto, l’Irlanda era una provincia dell’impero, dove si parlava più o meno la stessa lingua dell’impero, ma per il resto non diversa dall’Italia o dalla Spagna. Gli stessi U2 erano emersi in realtà dalla narrazione dell’Irlanda problematica, con brani anagraficamente vecchi più di un decennio ma spesso riproposti come “Sunday bloddy sunday” e “New year’s day”.

A contribuire al successo dell’Irlanda, allo svecchiamento della sua immagine di paese povero e violento, per dipingerlo come luogo attraente e pieno di opportunità, era stato in primo luogo, a livello vagamente elitario, “The Commitments” – parlo del film, tanti di quelli che lo magnificavano nemmeno sapevano che era stato tratto da un romanzo di Roddy Doyle – in cui gli irlandesi si identificavano come “i neri d’Europa” e come tali suonavano la musica delle classi lavoratrici, il soul, e si ponevano come dei giovani alla ricerca di uno sbocco in una realtà complessivamente povera, ma umanamente molto vivace. Poi era arrivata la musica: prima di tutto il folk – negli anni Novanta la musica celtica andava per la maggiore ovunque – e con esso la sua sacerdotessa indiscussa, Enya. Infine arrivò qualcun altro a cambiare tutto.

Originari di Limerick, quindi della provincia della provincia, un posto raffigurato fino a poco prima come un paese rurale ed in guerra che aveva dato l’origine di una musica evocativa e misteriosa, ecco quattro ragazzi con le facce normali ed un look ripulito che suonano un rock moderno e gradevole, con le influenze di Bono e soprattutto The Edge perfettamente identificabili, ma diversi, personali, attuali. Era normale che il rock-pop parlasse inglese, era normale che venisse dall’Inghilterra, da Londra, da Manchester, da Liverpool; molto meno, che una musica da tutti i giorni venisse dalle campagne irlandesi, per bocca e strumenti di quattro tizi che non si ponevano come divi o come portatori di chissà quali istanze e pretese, ma come gente che cantava la propria vita, che non c’entrava niente coi Celti e con l’IRA: la stessa vita di tutti. Una vita in cui la canzone simbolo della band era un brano che parlava della tragedia dei bambini nelle zone di guerra, ma non specificatamente nella guerra dell’Ulster. Una vita come la nostra, insomma.

Per cui ecco che improvvisamente l’Irlanda non era più il paese delle bombe e dei Celti, di una ninfa irraggiungibile e di un alieno infallibile: era un paese come tutti, in cui si poteva partire da una pagina bianca per parlare e dire qualsiasi cosa, in cui quattro tizi dall’aria timida capitanati da una giovane donna coi capelli biondo platino ed una voce potente ed incredibilmente espressiva potevano aprire la bocca per cantare ed emozionare mezzo mondo con canzoni semplici, dirette, oneste.

I Cranberries di Dolores O’Riordan, per l’appunto: una band che ha cambiato l’immagine di un intero paese praticamente da sola. E pensare che c’è chi dice che la musica non ha nessuna vera valenza politica.

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Stipendio

08 lunedì Gen 2018

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura, Un mondo di cialtroni

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Amazon, anni 30, antifascismo, Bassani, Bezos, catalanata, cialtroni, classici del 900, diritti, diritti dei lavoratori, diritti del lavoro, Farinetti, fascismo, Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, JEff Bezos, lavoratori, lavoro, letteratura, Micòl, Micòl Finzi-Contini, Oscar Farinetti, politica, precariato, precarietà, Sinistra

“Lo stipendio compra il lavoro, non la persona che lo svolge”.

Questa frase è contenuta in un romanzo italiano scritto alla fine degli anni Cinquanta ed ambientato per la maggior parte nella seconda metà degli anni Trenta. Non è una sentenza emessa dal narratore, bensì parte di un dialogo tra i protagonisti dell’opera, dei ragazzi attorno ai 25 anni di elevata istruzione (tre su quattro sono laureati, il quarto è fermo alla tesi) e discreto benessere. All’interno della conversazione, la frase non è pronunciata dal personaggio politicamente più attivo dei quattro, un comunista dichiarato, nonché l’unico non ebreo, e come tale l’unico non direttamente vittima dei provvedimenti discriminatori del fascismo, ma dalla figlia minore di una famiglia ricca – una famiglia che, contrariamente ad altre, anche prima delle discriminazioni aveva sempre mostrato ostilità nei confronti di Mussolini ed ostentato un atteggiamento progressista, ma pur sempre lontano dall’antifascismo da barricate e dalle istanze della classe operaia.

Oggi, nel 2018, nella società in cui un’azienda verifica il comportamento di un candidato sui social media prima di sottoporlo ad un colloquio di lavoro senza che nessuno lo consideri inappropriato, nel mondo in cui si può essere multati o licenziati per un commento imprudente nei confronti del capo o della compagnia per cui si lavora, in Italia, con la benedizione di un governo guidato da un partito che si dice di sinistra ed ha avallato il licenziamento arbitrario, la medesima frase sarebbe probabilmente vista come estremista, proveniente da quella sinistra che vuole regalare il paese alle destre ed ostacola il grande rinnovamento portato avanti da chi vuole rendere precaria la società in tutti i suoi aspetti ed immagina un mondo in cui siano tutti clienti felici di Amazon e Booking – a proposito di chi fa maliziosamente confusione tra ciò che le persone, non solo i dipendenti, fanno, ciò che hanno e ciò che sono.

Insomma, lavori al Centro di Incubazione e di Condizionamento: ringrazia che un lavoro ce l’hai e tieni un comportamento appropriato alla tua posizione anche fuori dall’ufficio!

Ecco, in una sessantina d’anni siamo passati dal considerare una sostanziale catalanata, fatta dire da Giorgio Bassani al personaggio complessivamente più equilibrato del suo libro più famoso, un’opinione bizzarra, anacronistica e, diciamocelo, un po’ anti-sistema. In una sessantina d’anni siamo arrivati a considerare un’estremista dei diritti dei lavoratori una come Micòl Finzi-Contini.

Con i sentiti complimenti dei grandi capitani d’industria contemporanei, da Jeff Bezos ad Oscar Farinetti.

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L’internazionalismo di quartiere

29 domenica Ott 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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catalani, Catalogna, cialtroni, comuni, Crimea, democrazia, Donbass, Europa, fascismo, federalismo, indipendentismo, indipendenza, internazionalismo, localismo, Lombardia, Maroni, nazismo, politica, Puigdemont, Putin, Rajoy, referendum, Russia, secessione, signorie, Spagna, stato, Ucraina, UE, Unione Europea, violenza, voto

C’era una volta uno Stato. Si chiamava Cialtronia, era il paese dei nostri incubi ed era fortunatamente molto diverso dalla gran parte dei paesi europei. In questo stato, nella sua parte orientale per essere precisi, c’era una regione che, per ragioni linguistiche e culturali, non riteneva di farne parte, ma per complesse questioni politiche e di storia contemporanea, era politicamente sotto il controllo della capitale.

Ad un certo punto, a seguito di una fase di forte instabilità politica interna, terminata con la presa di potere da parte di un gruppo reazionario, corrotto e con simpatie verso l’estrema destra, i contrasti con la regione orientale a maggioranza non Cialtrona si acuirono. Lo Stato centrale rispose alle pretese della regione autonoma prima con stizza ed arroganza istituzionale, poi proprio con violenza. I media europei fecero inizialmente finta di non vedere, poi presero sistematicamente ad ignorare quello che succedeva nella zona est di Cialtronia, dove la popolazione chiedeva il ripristino dell’ordine democratico, interrotto con la presa del potere del governo in carica, o, in alternativa, la concessione dell’indipendenza.

Le cose degenerarono, e si finì in una vera e propria guerra civile. Le città principali della regione indipendentista di Cialtronia vennero attaccate, mentre su Internet si iniziavano a diffondere video ed immagini che sembravano testimoniare l’uso di bombe a grappolo da parte del governo centrale e le aperte simpatie naziste delle truppe che combattevano per conto dello stato Cialtrone. In tutto questo, i media europei continuavano a non raccontare quello che succedeva veramente, preferendo concentrarsi su supposti crimini perpetrati dagli indipendentisti.

In realtà una cosa del genere in Europa è effettivamente successa: non in Catalogna, ma in Ucraina, a seguito del colpo di stato che ha portato Poroschenko al potere e il Donbass a chiedere la secessione. Non ricordo orde di internazionalisti filorussi contro il potere centrale corrotto e fascista, probabilmente perché con le regioni separatiste si era all’epoca schierato Putin (e, si sa, le brave persone sostengono attivamente l’esatto contrario di quello che dice Putin), ma forse ero distratto.

Adesso invece siamo pieni di indipendentisti alle vongole: questi soggetti, che qualche anno fa erano sulle barricate contro la validità del referendum che ha restituito la Crimea alla Russia, si spellano le mani di fronte ad una votazione, quella catalana dell’1 ottobre scorso, ai limiti del grottesco, con un tasso di partecipazione del 42% e voti multipli documentati, perché “il popolo si è svegliato”. Per una curiosa coincidenza, anche in Lombardia, nell’altrettanto ridicolo referendum a sostegno dello “statuto speciale” indotto dalla Lega e tenutosi la settimana scorsa, ha votato circa il 40% degli aventi diritto, peraltro non mi risulta che Roberto Maroni abbia chiesto alla popolazione di stampare le schede a casa e portarle in qualsiasi seggio aperto. Però i lombardi che hanno votato sono dei pagliacci, i catalani un popolo che si sveglia, il referendum lombardo è stato un fiasco, quello catalano una grande prova di democrazia.

Dice: “ma le violenze della polizia!” A parte che girano articoli che mostrano come alcune foto siano false e risalgano addirittura a scontri tra manifestanti e polizia catalana, qui stiamo parlando di spaccare uno stato con il “mandato popolare” fattivamente espresso del 38% della popolazione.

Trovo poi particolarmente ridicoli quelli che esultano per il contributo dato dai catalani alla disgregazione dello Stato nazionale a vantaggio dell’internazionalismo. Secondo questi soggetti, dunque, il superamento degli Stati nazionali passa per la loro moltiplicazione. I prossimi indipendentismi saranno dei Paesi Baschi e della Galizia, poi si separeranno le regioni vallone da quelle fiamminghe in Belgio, quindi finalmente toccherà alla Scozia e al Galles, successivamente a Veneto e Sicilia, e alla fine chissà, magari riusciremo a spaccare a metà anche il Lussemburgo. Purché Putin non sia favorevole, altrimenti tutti compatti ad opporsi.

Avanti così, verso l’internazionalismo di quartiere, per un ritorno a comuni e signorie (notori esempi di pace e tranquillità per secoli, peraltro), però globali. Ma fatemi il piacere.

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Rivelazioni

25 mercoledì Ott 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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abusi, abuso, abuso di potere, alfa, Amazon, ambizione, Asia Argento, Bezos, Bill Gates, cialtroni, competitività, costume e società, Cristiano Ronaldo, donne, Eataly, economia, Farinetti, femminismo, Harvey Weinstein, Hollywood, Lady GaGa, maschi alfa, Merkel, Michael Crichton, molestie sessuali, personalità alfa, politica, potere, Renzi, ricchezza, rivelazioni, sesso, società, stupro, uomini, valori, violenza, violenza sessuale, Weinstein

Allora, in Italia, nel 2017, pare che grazie al caso Weinstein ed alle denunce di Asia Argento, con tutto quello che ne è seguito, abbiamo scoperto che le persone di potere commettono abusi. Per il 2018 mi aspetto l’incredibile rivelazione che l’acqua è bagnata.

Senza andare troppo indietro, correva l’anno 1994 e negli Stati Uniti un uomo finì sulla graticola: il suo nome era Michael Crichton, era l’autore del romanzo “Jurassic Park” che era appena stato trasposto al cinema per la regia di Steven Spielberg (cosa che ci aveva consentito di vedere dei dinosauri perfettamente credibili su uno schermo!), ed il motivo era la pubblicazione della sua ultima fatica letteraria, “Rivelazioni”. Il libro parlava della vita in un’azienda high-tech americana e il plot principale si snodava attorno ad una vicenda di molestie sessuali: la ragione del rumore fu il fatto che nel romanzo la vittima era un uomo ed il molestatore una donna, sua superiore.

Il libro fu subito accusato di essere antifemminista, ed in parte lo era, infatti Crichton aveva dichiarato più volte di non poterne più di un movimento che stava finendo per considerare la donna una specie protetta – un po’ come quella parte di femminismo nostrano che combatte il patriarcato per sostituirsi ad esso, ad esempio dicendo alle donne come vestirsi e comportarsi per evitare di screditare o creare problemi alla causa. I lettori che non soffrivano di analfabetismo funzionale, però, capirono abbastanza rapidamente che la tematica centrale non erano le molestie sessuali, ma l’abuso di potere. Nel libro, dopotutto, l’avvocato a cui il protagonista si rivolge per tutelarsi e minacciare causa alla sua superiore lo asserisce piuttosto chiaramente: le molestie sessuali non c’entrano niente col sesso, sono una manifestazione violenta di potere.

Qualsiasi persona ricerchi ossessivamente il potere, il successo, i soldi e qualunque altra forma di realizzazione personale che si basa sul sentirsi superiore agli altri, è uno che, in un modo o nell’altro, è propenso all’abuso. Politici arrivisti, arrampicatori sociali, squali della finanza, scalatori di gerarchie aziendali, imprenditori aggressivi e competitivi: tutte tipologie di individui da cui è lecito attendersi un comportamento abusivo nei confronti del prossimo. È quello che fanno le cosiddette personalità alfa.

Lo fa Renzi quando caccia dal partito chi non la pensa come lui e lo fa la Merkel quando impone ai greci di rinunciare alle cure mediche gratuite; lo fa Bezos quando obbliga i dipendenti a ritmi massacranti e condizioni lavorative schiavistiche e lo fa Farinetti quando ricatta i dipendenti e insulta chi lo contesta; lo fa il barone universitario quando chiede all’assegnista di portargli a spasso il cane o quando non gli fa firmare un articolo; lo fa il broker della City quando manda migliaia di persone sul lastrico spostando soldi per speculare o quando si assume il merito di un’operazione brillante condotta interamente dai suoi assistenti sfruttati e sottopagati; lo fa il tizio col Cayenne quando si ferma in doppia fila bloccando un parcheggio per disabili; lo fa il produttore di Hollywood quando fa capire alla giovane attrice (o anche al giovane attore, perché no?) che o si mette a 90 gradi o non lavorerà mai più.

Ovviamente, solo alcuni di questi comportamenti sono penalmente rilevanti, e l’abuso in ambito sessuale è particolarmente odioso, il punto è che però sono tutte facce della stessa questione – la necessità di esercitare ed ostentare il potere, il bisogno di essere riconosciuti come superiori. Il vero problema, però, è che la società attuale è di fatto subalterna alle personalità alfa: chi lotta, compete e fa di tutto per arricchirsi, emergere e conquistare potere, e ci riesce, è considerato un modello, uno da invidiare ed imitare – non parlo solo dei Bill Gates, eh, parlo anche dei Cristiano Ronaldo e delle Lady GaGa. Chi vive la sua vita con un sistema di valori diverso, non basato su ambizione e desiderio di successo, è normalmente visto come un debole.

L’ipocrisia della società, alla fine, è tutta qui: portare sul palmo di mano come esempi persone che sono intrinsecamente propense all’abuso, e poi sorprendersi e scandalizzarsi quando commettono abusi – ma solo (e nemmeno sempre) se gli abusi sono penalmente rilevanti: negli altri casi si tratta di personalità, carattere e abilità di leadership, mentre il povero sottoposto schiavizzato è solo un fallito che a questo mondo non sa farsi valere.

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Divorzio

18 mercoledì Ott 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Un mondo di cialtroni

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1 ottobre, Andalusia, Barcellona, BCE, Carles Puigdemont, catalani, Catalogna, cialtroni, economia, Europa, fascismo, governo, indipendentismo, indipendenza, Madrid, Mariano Rajoy, Merkel, pestaggi, politica, Puigdemont, Rajoy, referendum, secessione, secessionismo, Spagna, spagnoli, Stefano Olivari, UE, Unione Europea, violenza

Notizie da Cialtronia. Nel paese dei nostri incubi, al cui mondo calcistico faceva spesso riferimento Stefano Olivari, una volta c’era una coppia sposata che stava attraversando una crisi: più precisamente, la moglie della coppia, Rambla, voleva lasciare il marito Lavapiés, che non era per niente d’accordo. All’epoca degli avvenimenti che stiamo narrando, Cialtronia non era un paese moderno, ed il divorzio in generale non esisteva: esistevano i tribunali che decidevano caso per caso, a seconda delle motivazioni.

Uno dei problemi principali della questione era che Rambla, grazie al suo percorso di studi ed alla sua gavetta, guadagnava un sacco di soldi, ma la comunione di beni la costringeva a dividerli con Lavapiés, il quale aveva l’obbligo morale di usarne una parte per mantenere la sua famiglia d’origine, che comprendeva anche membri molto poveri come, mentre Rambla per i suoi introiti aveva ben altri progetti, tra i quali, almeno idealmente, aiutare a sua discrezione i bisognosi, che a Cialtronia peraltro non mancano mai. Inoltre, Lavapiés doveva rifondere i debiti contratti con una potente e vendicativa donna straniera, Bicié. E insomma, Rambla voleva diventare padrona del proprio destino, fino a tentare di trattare personalmente con Bicié la sua parte di debito, anche se Bicié non sembrava molto propensa a considerare Rambla un interlocutore valido una volta sciolto il matrimonio.

Il fatto però era che il tribunale di Cialtronia non considerava le motivazioni economiche una giusta causa di divorzio. Un giorno Rambla decise, nonostante le condizioni avverse, di prendere e lasciare Lavapiés in modo unilaterale, senza il consenso dello stesso, né del tribunale del divorzio. Lavapiés, dopo aver passato anni ad ignorare le richieste di soldi ed attenzioni di Rambla, perse completamente la testa e massacrò Rambla di botte. L’aspetto grottesco dell’aggressione è la persona che voleva scappare veniva pestata dalla persona che voleva tenerla al suo fianco – al di là dell’ovvia ed assoluta gravità del pestaggio, davvero una strategia raffinata. Purtroppo a questo punto la storia si interrompe, perché non è ancora stato scoperto che cosa successe in seguito a Rambla: quello che si sa è che, dopo il pestaggio, non solo parecchi amici, ma finanche alcuni famigliari di Lavapiés avevano iniziato a capire le ragioni di Rambla ed iniziarono a farsi qualche domanda sul loro capofamiglia.

Quello che abbiamo capito, al di là di ogni possibile dubbio, è che se Rambla è una donna capricciosa ai limiti dell’avventato, Lavapiés è un idiota, inadeguato, privo di autocontrollo, squadrista e violento, incapace di ascoltare, uno che di fronte ad un problema si chiude e chiama gli sgherri. Uno che, per prima cosa, la sua famiglia deve rimuovere e sostituire immediatamente, non tanto e non solo, oramai, perché è un inetto completo che non è nemmeno capace di evitare le ire di Bicié e le sue conseguenti rappresaglie, ma soprattutto perché la famiglia deve recuperare una credibilità che con i pestaggi ha miseramente e squallidamente perso.

Rambla non ha mai davvero avuto un motivo per andarsene. Pretesti, ne ha cercati tanti: il voler utilizzare i soldi come voleva lei, purché non se ne avvantaggiassero i parenti di Lavapiés, come se Giralda, Mezquita o Alhambra fossero persone indegne; la corruzione del marito, come se lei credesse veramente di esserne immune nei secoli a venire; la subalternità di Lavapiés verso Bicié, come se, volendo restare nello stesso giro, lei pensasse davvero di essere in grado di parlarci da pari a pari; e via dicendo. Ma non era mai stata oppressa, discriminata o maltrattata, almeno prima del mese scorso.

Adesso, grazie al fatto che nel cervello di Lavapiés comanda un cretino, il motivo ce l’ha, perché le botte non possono essere accettabili, e la combinazione tra irrisione e botte è anche peggio, a maggior ragione se poi i parenti più stretti di di Lavapiés fanno finta che non sia successo niente. Questo lo sa Rambla e probabilmente lo sa anche il tribunale del divorzio.

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Il bravo secessionista

16 lunedì Ott 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Un mondo di cialtroni

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Barcellona, capopopolo, Carles Puigdemont, catalani, Catalogna, cialtroni, economia, fascisti, identità, identità nazionale, indipendentismo, integrazione, internazionalismo, leader, leadership, leghismo, macroeconomia, Madrid, paradisi fiscali, politica, politici, Puerta del Sol, Puigdemont, Rajoy, referendum, secessione, secessionismo, sfruttamento, Sinistra, socialismo, Spagna, UE, Unione Europea

Non capisco tutto questo credito di cui gode in ambienti sinistrorsi il leader indipendentista catalano Carles Puigdemont. Nel corso delle ultime settimane, nell’ordine:

1. Ha varato a tappe forzate dei provvedimenti che consentissero un referendum per l’indipendenza nonostante sapesse che, secondo sondaggi accreditati, grosso modo tra il 38 ed il 42% dei catalani è favorevole ad andarsene dalla Spagna;
2. Di fronte alle reazioni poco concilianti di Spagna ed Unione Europea si è trovato del tutto impreparato – forse pensava che lo avrebbero festeggiato;
3. Di fronte alle inaccettabili violenze della polizia spagnola si è prima di nuovo mostrato inadeguato, poi ha chiesto ai catalani che volevano votare di stamparsi le schede da casa e consegnarle dove potevano, una roba che neanche Trujillo;
4. Dopo un risultato positivo ma certo non eccezionale (anche per via dei prevedibili e documentati voti multipli), ha alzato la voce e avvisato il mondo che avrebbe dichiarato l’indipendenza della Catalogna, salvo non avere la minima idea delle conseguenze del gesto e di come portare avanti il processo;
5. Di fronte alla solidarietà dei giovani di Madrid che la sera dell’1 ottobre cantavano “Viva Catalunya” in Puerta del Sol è rimasto spiazzato, come tutti quelli che vivono in una retorica tipo “io solo contro il mondo” quando si accorgono che le cose non sono così semplici;
6. Messo davanti alle evidenti difficoltà gestionali di un processo di separazione con cui una percentuale rilevante della popolazione che sostiene di rappresentare non è nemmeno troppo d’accordo, se l’è fatta sotto ed è tornato sui suoi passi.

In tutto ciò, se da un lato c’è il lodevole internazionalismo di stampo socialista di una parte degli indipendentisti catalani, dall’altro c’è una tuttora mancante spiegazione su come e dove la Catalogna dovrebbe compensare la perdita economica delle imprese nazionali spagnole che chiuderanno le sedi locali. C’è chi dice che l’apertura verso i mercati internazionali attirerebbe capitali esteri, ma a questo punto sorgono due problemi pratici di difficile soluzione: primo, il fatto che la Catalogna dovrebbe, da paese unilateralmente in fuga da uno Stato membro della CEE dal 1986, negoziare l’ingresso nell’Unione Europea da zero; secondo, il fatto che le multinazionali se ne fregano delle questioni di politica locale, scelgono le loro sedi su basi di convenienza, il che, semplificando un po’, verrebbe a significare che la Catalogna o pensa di diventare una sorta di paradiso fiscale, o ritiene di accettare un livello di sfruttamento dei lavoratori superiore a quello attualmente consentito dalle leggi spagnole. E questo ha molto poco di internazionalismo socialista.

Intendiamoci, io non ritengo Puigdemont peggiore di Rajoy, che, oltre ad essere, come ha mostrato domenica 1 ottobre, uno con tendenze squadriste, violente ed autoritarie, è uno squalo monetarista al servizio dei peggiori deliri contabili della UE ed un imbecille a sua volta completamente impreparato ad affrontare una situazione delicata, al punto da preferire la strada della radicalizzazione dello scontro a quella del ragionamento – e questo è andato avanti per anni, non mi riferisco solo agli ultimi due mesi. Vorrei solo capire, al di là dei suoi discorsi da cappa e spada, dov’è che Puigdemont sarebbe un bravo leader.

Infine, c’è un’altra cosa che mi piacerebbe sapere dai filo-catalani. Abbiamo visto tutti le violenze ed i simpatici saluti fascisti di una parte dei manifestanti contro l’indipendenza – poi siamo sempre tutti bravi a generalizzare con le manifestazioni degli altri ed a fare i distinguo con le nostre, ma non è nemmeno questo il punto. Il punto è: certa gente pensa davvero che, una volta ottenuta la separazione, nello stato autonomo di Catalogna queste cose smetterebbero di verificarsi? In altre parole, secondo questi teorici del bianco e nero il concetto di fondo quale sarebbe? Separatisti buoni e socialisti contro filo-spagnoli cattivi e fascisti?

Ma, anche fosse così, i separatisti catalani, ottenuta l’indipendenza, cosa pensano di fare con gli spagnoli ed i filo-spagnoli brutti e cattivi residenti a Barcellona? Cacciarli a pedate? Così, tanto per capire.

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Capitalismo

24 lunedì Lug 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Un mondo di cialtroni

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Amazon, anticapitalismo, banche, Booking, capitalismo, cialtroni, concorrenza, diritti civili, diritti sociali, economia, economia politica, Facebook, feudalesimo, Google, imprenditori, investimenti, leggi, liberismo, lobbismo, lobby, neoliberismo, paradisi fiscali, PMI, politica, politica economica, regole, sistema economico, soldi, speculazione, stato, tasse, teoria economica

Cos’è il capitalismo?

Il capitalismo è stato il sistema economico grosso modo prevalente degli ultimi tre secoli. Funziona più o meno così: un tizio investe soldi, conoscenza e capacità organizzativa in un processo produttivo ed assume lavoratori per portare a termine l’attività; i lavoratori guadagnano un salario basato sostanzialmente sulle condizioni economiche e sulla reciproca forza contrattuale, mentre l’imprenditore vede remunerato il proprio investimento ed il lavoro di organizzazione mediante un profitto. In tutto questo, lo Stato serve a garantire la presenza di condizioni favorevoli all’attività economica, ad esempio il rispetto delle norme di concorrenza. L’associazionismo a tutela degli interessi di categoria, sia degli imprenditori che dei lavoratori, è consentito. Le banche fungono da intermediari tra il risparmio privato ed il finanziamento dell’attività imprenditoriale.

Esistono diversi gradi di limitazione e regolamentazione dell’attività economica. Ad esempio, lo Stato può anch’esso essere capitalista, ma senza fini di lucro, per gestire la produzione di beni e l’erogazione di servizi essenziali che non possono essere soggetti a transazione sul mercato, perché ad esempio altrimenti non tutti potrebbero avervi accesso, o perché l’eventuale fallimento dell’azienda erogante verrebbe a privare la collettività di qualcosa di indispensabile. Inoltre, lo Stato può in certa misura intervenire per evitare l’insorgere di un inaccettabile grado di sbilanciamento nella distribuzione della ricchezza, mediante politiche preventive (come l’imposizione di salari minimi) e correttive (come la tassazione progressiva ed il suo utilizzo per fini redistributivi).

Fin qui come stanno in teoria, ed utilizzando semplificazioni estreme, le cose. Vediamo perché l’attuale sistema economico non ha nulla a che vedere col capitalismo – no, nemmeno con il liberismo più selvaggio, quello secondo il quale lo Stato dovrebbe limitarsi al minimo indispensabile, se non proprio sparire del tutto.

Per cominciare, non c’è nessuna concorrenza. Il sistema economico è drogato da una quantità enorme di storture atte a creare vantaggio a chi è dimensionalmente rilevante: si basa sulle lobby, che possono permettersi di foraggiare i legislatori per ottenere in cambio quello che vogliono; in un sistema aperto esistono paradisi fiscali, dove chi può permettersi di piazzare la sede paga tasse minime, con enormi vantaggi competitivi; nel frattempo vengono mantenuti in vigore concetti di concorrenza dogmatici e ridicoli, che di fatto si ritorcono contro lavoratori e piccole aziende, non contro le società più grandi.

In molti casi i capitalisti non rischiano niente di proprio. In Italia, ad esempio, siamo pieni di imprenditori coi soldi degli altri: mettono su un’attività che permane indefinitamente sull’orlo della bancarotta, che non ha nessuna possibilità di competere alla pari sul mercato (in massima parte per incapacità gestionale, organizzativa e pratica), ma viene tenuta in vita, peraltro sulle spalle dei lavoratori e non di una dirigenza incompetente e strapagata, mediante contributi, aiuti di Stato ed altre gentili regalie, il tutto mentre i dipendenti devono sempre essere a disposizione dell’azienda.

Le banche acquisiscono i risparmi privati ma non finanziano attività produttive. Da anni gli istituti di credito preferiscono sottrarre soldi al circuito dell’economia reale per destinarli a rischiose operazioni speculative di breve periodo, mentre piccole e medie imprese non hanno accesso al credito e annaspano contro giganti che le soffocano col dumping fiscale e salariale, mentre tutti si dicono quanto è bello ordinare le cose su Amazon.

Gli Stati (così come gli organismi sovrastatali) hanno abdicato al ruolo di controllori, non per sparire come vorrebbero i liberisti, ma per gettarsi su quello dei facilitatori: si limitano ad osservare la realtà e, invece di combatterla ove si verifichino storture e si riscontrino comportamenti che violano le leggi e le regole essenziali, abbattono dette leggi e regole essenziali dicendo che il mondo è cambiato e le norme della convivenza civile devono essere superate, e costruendo una società a misura dei desiderata di lobby ed imprese.

Se domani si risvegliassero i teorici del capitalismo come Smith e Ricardo, tornerebbero immediatamente a dormire, depressi dopo aver constatato che il sistema economico è tornato al medioevo, con Facebook e Booking al posto dei signorotti locali e con eserciti di fessi che li idolatrano invece di combatterli. Sono loro, Facebook e Booking, Amazon e Google, i primi ad osteggiare apertamente la vera libera iniziativa economica, i principali e concreti anticapitalisti.

Capitalismo? Ma fatemi il piacere!

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Ani DiFranco @ Laghetto di Villa Ada, Roma, 4/7/2017

05 mercoledì Lug 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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32 flavors, Ani D, ani difranco, battaglie, bellezza, cantanti, chitarra, chitarra acustica, chitarristi, concerto, Difranco, emozioni, estate romana, femminismo, folk, folk-punk, folk-rock, grazie, invecchiare, Little plastic castle, live, Living in clip, lotta, musica, musica dal vivo, nostalgia, passione, politica, rabbia, Roma, To the teeth, villa Ada

Premetto: amo Ani DiFranco dal 1998, per alcuni periodi si è trattato di un amore particolarmente intenso; “Living in clip”, “Little plastic castle” e “To the teeth” sono stati poco meno che delle bibbie per me; tra il 2000 ed il 2004 l’ho vista dal vivo 4 volte, con diversi tipi di band ed accompagnata da un contrabbassista; per un lungo periodo Ani D. è stata una delle mie fonti di citazioni più saccheggiate, di gran lunga la più utilizzata su argomenti seri; il suo modo di esprimersi, di raccontare o semplicemente sputare fuori certe cose si sposa perfettamente con la mia sensibilità e la mia persona. Quindi io ieri sera, 4 luglio 2017, al laghetto di villa Ada, non ho assistito al concerto di una cantautrice americana: ho rivisto un vecchio amore. E non sarò mai in grado di parlarne razionalmente.

E dunque, ieri sera. Temevo un po’ l’effetto nostalgia: primo perché non ascolto tantissimo Ani D. da qualche tempo, secondo perché i 12 anni trascorsi dall’ultima volta che l’ho vista dal vivo sono passati per tutti, e l’idea che miss DiFranco potesse aver in parte esaurito la spinta propulsiva, o che io potessi non trovarmi più in sintonia col suo linguaggio mi spaventava un po’. Poi Ani, attorno alle dieci di sera, è salita sul palco. E no, non siamo tornati tutti nel 2002: eravamo tutti ben consapevoli del tempo. Il punto, anzi, è proprio questo: ci siamo ritrovati. Non come se gli anni non fossero trascorsi, ma come se avessimo continuato a vederci tutti i giorni.

Piccola divagazione. Ani DiFranco somiglia concettualmente ad artisti come Dave Matthews o Tori Amos: la scaletta dei suoi concerti attinge ad un repertorio enorme in maniera libera ed onnicomprensiva; letteralmente, in un concerto può suonare qualsiasi pezzo, da qualsiasi disco. Certo, ci sono dei preferiti (tipo “Gravel” e “Shameless”) e dei brani che non suona quasi mai, ma ogni concerto fa storia a sé tra canzoni nuove, canzoni vecchie, canzoni vecchissime. Impossibile aspettarsi qualcosa, tuttavia ognuno può sempre sperare che attinga almeno un brano dal suo pantheon personale: ricordo ancora i brividi di quando nel 2001 attaccò “Done wrong”; ieri invece mi ha regalato “32 flavors”. Speravo almeno una tra “The diner”, “Swan dive” e “Untouchable face”, ma niente.

Il concerto dicevamo. La prima, ottima, notizia è stata che era accompagnata da due tizi, un batterista ed un contrabbassista, e per quello che mi riguarda la sua musica, almeno quella vecchia, rende al meglio se suonata in trio. La seconda è che ha iniziato a suonare: si è presentata al pubblico con “Two little girls”, seguita da “As is”, entrambe da “Little plastic castle”: il mio cuore ha ringraziato sentitamente.

In realtà, non c’è molto altro da dire, o meglio ce n’è una, concisa e compendiosa: è stato un concerto di Ani DiFranco. Ha quasi 47 anni, ma è come se ne avesse 30, per energia, voglia, passione e cose da dire. È come è sempre stata: travolgente, divertente, intensa, emozionata ed emozionante, con la sua voce, le sua chitarre acustiche e le sue unghie finte (che si è dovuta frettolosamente e un po’ comicamente riattaccare alle dita quando dietro l’insistenza del pubblico, incoraggiato dai tecnici, ha deciso di uscire una seconda volta per un ulteriore bis) per torturarne le corde e farne suoni pazzeschi a tremila note al minuto. Ha una storia da raccontare, oggi, una storia lunga: può guardare alla rabbia del suo primo decennio con una consapevolezza diversa, ma non l’ha né rinnegata né attenuata, e non ha rinunciato alla lotta, alla politica, al femminismo, all’uguaglianza. Per cui eccola che, anche nei pezzi nuovi, parla di sé e delle sue battaglie, con una maturità che a 26 anni non aveva, ma sempre in prima persona, senza predicare o pontificare e senza la calma ipocrita di chi guarda da fuori. Altro che effetto nostalgia, lei è sempre lì, orgogliosamente sulle barricate, chi è invecchiato, dentro molto più che fuori, al massimo è chi la va ad ascoltare.

C’è solo una cosa da fare: ringraziarla. Che gioia averla vista!

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La classe dirigente

22 giovedì Giu 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Fingersi esperti di cinema

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Alessandro Di Battista, Almirante, anti-politica, Appendino, Beppe Grillo, Berlinguer, capolavoro, cinema, DC, delirio, Di Battista, Di Maio, eccentricità, film, follia, genio, governo, Grillini, La Classe Dirigente, Luigi Di Maio, M5S, Matteo Renzi, Movimento 5 stelle, Onestà, paraculo, parlamento, Peter O'Toole, politica, potere, Raggi, Renzi, Roma, Salvini, Torino, Virginia Raggi

Un film dimenticato dai più perché incredibilmente sottovalutato è “La classe dirigente” (“The ruling class” in originale). Peter O’Toole vi interpreta Jack Gurney l’erede di una famiglia di pari inglesi che, a seguito della morte del padre, eredita il patrimonio di famiglia, titolo e seggio alla Camera dei Lord compresi. Solo che Jack è degente di un ospedale psichiatrico perché si crede la reincarnazione della Trinità. La famiglia allora cerca di tenere sotto controllo le sue manie, che includono una discreta collera divina, e di renderlo presentabile – presentabile, non sano – di modo che possa passare per eccentrico invece di essere considerato pazzo. Alla fine è Jack stesso a capire che una cosa del genere gli conviene: si rivolta contro la famiglia, si ripulisce e reclama il titolo per utilizzarlo in prima persona, non come emanazione dei parenti. Dopodiché ricomincia a delirare, ma da uno scranno di potere, non da dentro un manicomio.

La pellicola è geniale, ferocemente satirica, splendidamente grottesca con un utilizzo sapiente dell’iperbole, ed il suo unico limite è che si ride moderatamente perché è nel concetto fin troppo amara. È anche piuttosto lunga, dura circa due ore e mezza.

Ecco, le vicende del Conte Jack Gurney mi ricordano abbastanza da vicino quelle del Movimento 5 Stelle. Una manica di persone instabili, che vedono sé stesse un po’ come una sorta di giustizieri della notte, convinti di trovarsi in un universo parallelo in cui le loro sparate hanno un senso, che accanto a tanti squilibrati non sembrano nemmeno troppo più matti degli altri, riesce a raggiungere in qualche modo le posizioni di potere, che siano esse una poltrona da sindaco o semplicemente un numero rilevante di parlamentari, per poi continuare a dire cose senza senso, sapendo che nessuno di loro sarà considerato diversi dall’infinità di irresponsabili che popolano la classe dirigente italiana.

Quando si trovano a governare, questi signori si dimostrano di un’inettitudine con pochi precedenti. Non voglio sostenere che Renzi in 3 anni a Palazzo Chigi abbia dimostrato una qualsivoglia abilità amministrativa, né che Salvini sarebbe capace di fare alcunché, ma gli eletti del M5S brillano da un lato per spocchia e presunzione, dall’altro per la loro incrollabile fiducia che basterà la loro ostentata idea di essere dei castigamatti della corruzione per far evaporare i sistemi clientelari che reggono la vita pubblica dell’Italia, salvo poi scontrarsi con una realtà in cui non basta dire “io sono onesto” per far sì che burocrazia e malaffare consegnino le armi e si ritirino in buon ordine – la cosa fantastica è come ci rimangono quando se ne accorgono.

È di questi giorni un’incredibile esternazione di Luigi Di Maio, probabilmente il personaggio più grottescamente antipatico dell’intera galassia grillina, un insopportabile alter ego di Renzi altrettanto populista, ignorante e paraculo, secondo la quale il M5S si ispirerebbe a Berlinguer, ad Almirante ed alla DC. Cioè ad un segretario storico del Partito Comunista, ad un fascista conclamato, repubblichino mai pentito più volte attenzionato dalle Procure per le sue posizioni anticostituzionali, e ad un partito a-ideologico che ha governato il paese per 40 anni con sistemi clientelari e raccomandazioni, in cui convivevano decine di correnti e che si reggeva solo ed esclusivamente sull’amore per il potere ed il suo esercizio. Il tutto mentre a Roma Virginia Raggi delira di funivie mentre non riesce a garantire un servizio di autobus nemmeno passabile, vagheggia di rifiuti zero mentre nel centro i camion della nettezza urbana passano ad intervalli irregolari ed imprevedibili, e straparla di decoro urbano mentre si accanisce contro i centri accoglienza, perché l’obiettivo non è aiutare i poveri ma farli sparire dalla vista.

Quello che vorrei fosse chiaro è che Di Maio, Di Battista, Fico, Raggi, Appendino e compagnia predicante non sono né degli eccentrici né delle persone con delle posizioni un po’ estreme ma di buona volontà: esattamente come Peter O’Toole in “La Classe Dirigente”, sono semplicemente degli squilibrati incapaci di pensiero critico e di qualsivoglia abilità pratica, e per di più fortemente attratti dall’autoritarismo.

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Il non morto

12 lunedì Giu 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia

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amministrative 2017, antipolitica, Beppe Grillo, Berlusconi, Centro-destra, Centro-sinistra, Civati, Clinton, Corbyn, destra, Di Battista, Di Maio, economia, elettorato, elettori, elezioni, elezioni amministrative, Forza Italia, Fratoianni, governo, Grillo, ideali, ideologie, Jobs Act, M5S, Macron, Matteo Renzi, Minniti, PD, politica, Possibile, Raggi, Renzi, Roma, Salvini, Sanders, Silvio Berlusconi, Sinistra, voti, voto

Trovo francamente piuttosto naif tutta questa sottintesa sorpresa mista a disgusto che accompagna la apparente ripresa della destra, dove per “destra” si intendono Salvini e il redivivo (anche perché mai veramente redimorto) Berlusconi, osservata nel primo turno delle elezioni amministrative. Dal mio canto, non capisco cosa ci si potesse aspettare di diverso. Per diversi tipi di ragioni. Vediamo meglio.

Come al solito, l’astensione è su livelli impensabili sono una quindicina di anni fa. Ora, sostanzialmente dal 1994 la vita politica italiana è stata incentrata su un solo personaggio, Silvio Berlusconi; nella sua ombra ha vivacchiato tutta una serie di personaggi minori, chi stando dalla sua parte chi fingendo di opporglisi. Dal 2013, un tizio di nome Matteo Renzi ci ha raccontato di averlo fatto fuori, mentre in realtà ci ha fatto un accordo, per cui Berlusconi, che, va ricordato, è ancora proprietario di reti televisive e giornali, ha sempre limitato gli attacchi e la delegittimazione nei suoi riguardi perché il principino del PD non sembrava intenzionato a creargli problemi. Nel frattempo, però, Renzi si è dimostrato, in tre lunghi anni, di una spocchia paragonabile a quella del predecessore e se possibile ancora più inetto ed incompetente. Lo stesso è successo col M5S (ometterò qui qualsiasi discorso, che pure sarebbe da fare, su come la stampa sia in grado di far sembrare ingigantite le pur colossali inettitudini di Raggi, Appendino, Di Maio e compagnia altezzosamente predicante).

Ora, sia il PD renziano che il M5S hanno sempre, con una certa pervicacia ed una spocchia degna di miglior causa, spiegato all’elettorato che loro non sono di sinistra, e che fanno bene a non esserlo: le ideologie sono morte, chi si ispira ad ideali marxisti o keynesiani è fuori dalla storia, e comunque le elezioni si vincono al centro, e magari pure a destra, viva la Clinton e abbasso Sanders (infatti poi abbiamo visto come ha vinto, la Clinton), viva Macron e abbasso Corbyn, viva il PSOE e abbasso Podemos. Da tempo c’è una gran corsa a conquistare l’elettorato cosiddetto “moderato”, che in realtà è una rissa per convincere chi è fondamentalmente di destra ma non lo ammette pubblicamente, ignorando completamente quello schierato ideologicamente a sinistra, perché tanto si dà per scontato che un partito che in pubblico polemizza coi deliri di Salvini catalizzi automaticamente la preferenza di chi si dichiara, ad esempio, antirazzista.

Il punto però è che a forza di governare con la destra, fare le moine alla destra, cercare di piacere alla destra e soprattutto assumere posizioni e varare provvedimenti palesemente di destra, come il Jobs Act ed il decreto Minniti, l’elettorato di sinistra stenta a vedere delle vere differenze tra Salvini e la Meloni da un lato e Renzi e Gentiloni dall’altro. Quindi, semplicemente, in assenza di alternative (che ci sarebbero, come Civati e Fratoianni, ma sui giornali e in televisione non devono comparire per quello che sono, altrimenti poi la truffa la capiscono tutti), le persone di sinistra smettono di andare a votare. Nel frattempo, a forza di dimostrarsi completamente inetti ed incapaci, va a finire che la destra i voti degli elettori di destra se li riprende.

Insomma, inettitudini di destra per inettitudini di destra, tanto vale votare direttamente, non tanto per l’inetto originario, quanto per quello che si dichiara apertamente di destra e, ad esempio, combatte l’aborto e le unioni omosessuali, invece di uno che non combina niente lo stesso, ma coccola, per convincere i sette elettori di sinistra rimastigli, un tipo di diritto civile incompatibile con le concezioni medievali dei conservatori italici.

Quindi, quelli di sinistra hanno capito l’inganno e smettono di votare, quelli di destra hanno capito che le alternative sono incapaci quanto Berlusconi se non peggio e tornano all’ovile: risultato, Berlusconi riguadagna quattro voti, l’astensione aumenta soprattutto tra gli ex elettori dei suoi cosiddetti avversari. I risultati mi sembrano sotto gli occhi di tutti.

Dal che la domanda: ma il PD e il M5S, fatti salvi i tifosi e le persone che fanno politica per interesse personale, esattamente chi li dovrebbe votare?

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