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Ani DiFranco @ Laghetto di Villa Ada, Roma, 4/7/2017

05 mercoledì Lug 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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32 flavors, Ani D, ani difranco, battaglie, bellezza, cantanti, chitarra, chitarra acustica, chitarristi, concerto, Difranco, emozioni, estate romana, femminismo, folk, folk-punk, folk-rock, grazie, invecchiare, Little plastic castle, live, Living in clip, lotta, musica, musica dal vivo, nostalgia, passione, politica, rabbia, Roma, To the teeth, villa Ada

Premetto: amo Ani DiFranco dal 1998, per alcuni periodi si è trattato di un amore particolarmente intenso; “Living in clip”, “Little plastic castle” e “To the teeth” sono stati poco meno che delle bibbie per me; tra il 2000 ed il 2004 l’ho vista dal vivo 4 volte, con diversi tipi di band ed accompagnata da un contrabbassista; per un lungo periodo Ani D. è stata una delle mie fonti di citazioni più saccheggiate, di gran lunga la più utilizzata su argomenti seri; il suo modo di esprimersi, di raccontare o semplicemente sputare fuori certe cose si sposa perfettamente con la mia sensibilità e la mia persona. Quindi io ieri sera, 4 luglio 2017, al laghetto di villa Ada, non ho assistito al concerto di una cantautrice americana: ho rivisto un vecchio amore. E non sarò mai in grado di parlarne razionalmente.

E dunque, ieri sera. Temevo un po’ l’effetto nostalgia: primo perché non ascolto tantissimo Ani D. da qualche tempo, secondo perché i 12 anni trascorsi dall’ultima volta che l’ho vista dal vivo sono passati per tutti, e l’idea che miss DiFranco potesse aver in parte esaurito la spinta propulsiva, o che io potessi non trovarmi più in sintonia col suo linguaggio mi spaventava un po’. Poi Ani, attorno alle dieci di sera, è salita sul palco. E no, non siamo tornati tutti nel 2002: eravamo tutti ben consapevoli del tempo. Il punto, anzi, è proprio questo: ci siamo ritrovati. Non come se gli anni non fossero trascorsi, ma come se avessimo continuato a vederci tutti i giorni.

Piccola divagazione. Ani DiFranco somiglia concettualmente ad artisti come Dave Matthews o Tori Amos: la scaletta dei suoi concerti attinge ad un repertorio enorme in maniera libera ed onnicomprensiva; letteralmente, in un concerto può suonare qualsiasi pezzo, da qualsiasi disco. Certo, ci sono dei preferiti (tipo “Gravel” e “Shameless”) e dei brani che non suona quasi mai, ma ogni concerto fa storia a sé tra canzoni nuove, canzoni vecchie, canzoni vecchissime. Impossibile aspettarsi qualcosa, tuttavia ognuno può sempre sperare che attinga almeno un brano dal suo pantheon personale: ricordo ancora i brividi di quando nel 2001 attaccò “Done wrong”; ieri invece mi ha regalato “32 flavors”. Speravo almeno una tra “The diner”, “Swan dive” e “Untouchable face”, ma niente.

Il concerto dicevamo. La prima, ottima, notizia è stata che era accompagnata da due tizi, un batterista ed un contrabbassista, e per quello che mi riguarda la sua musica, almeno quella vecchia, rende al meglio se suonata in trio. La seconda è che ha iniziato a suonare: si è presentata al pubblico con “Two little girls”, seguita da “As is”, entrambe da “Little plastic castle”: il mio cuore ha ringraziato sentitamente.

In realtà, non c’è molto altro da dire, o meglio ce n’è una, concisa e compendiosa: è stato un concerto di Ani DiFranco. Ha quasi 47 anni, ma è come se ne avesse 30, per energia, voglia, passione e cose da dire. È come è sempre stata: travolgente, divertente, intensa, emozionata ed emozionante, con la sua voce, le sua chitarre acustiche e le sue unghie finte (che si è dovuta frettolosamente e un po’ comicamente riattaccare alle dita quando dietro l’insistenza del pubblico, incoraggiato dai tecnici, ha deciso di uscire una seconda volta per un ulteriore bis) per torturarne le corde e farne suoni pazzeschi a tremila note al minuto. Ha una storia da raccontare, oggi, una storia lunga: può guardare alla rabbia del suo primo decennio con una consapevolezza diversa, ma non l’ha né rinnegata né attenuata, e non ha rinunciato alla lotta, alla politica, al femminismo, all’uguaglianza. Per cui eccola che, anche nei pezzi nuovi, parla di sé e delle sue battaglie, con una maturità che a 26 anni non aveva, ma sempre in prima persona, senza predicare o pontificare e senza la calma ipocrita di chi guarda da fuori. Altro che effetto nostalgia, lei è sempre lì, orgogliosamente sulle barricate, chi è invecchiato, dentro molto più che fuori, al massimo è chi la va ad ascoltare.

C’è solo una cosa da fare: ringraziarla. Che gioia averla vista!

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Joyce Carol Oates: “La ragazza tatuata”

13 mercoledì Gen 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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cliché, comunicazione, damigella in pericolo, damsel in distress, Joyce Carol Oates, La ragazza tatuata, letteratura, libri, libro, maltrattamenti, Oates, odio, pregiudizi, rabbia, rancore, romanzi, sesso, violenza, violenza sulle donne

Joyce Carol Oates - La ragazza tatuataCiao. Mi chiamo In Bocca Al Lupo Express ed ho un problema con il cliché della damigella in pericolo, o “damsel in distress”, come lo chiamano in terra d’Albione. Ogni volta che mi viene presentata una giovane donna in condizioni di disagio, disturbata o sottomessa, mi sciolgo e cado miseramente. È in questa sorta di perverso feticismo che rientrano alcune delle mie passioni artisticamente più intense, prime tra tutte quella per le cantautrici malinconiche che usano la musica come terapia e per le voci femminili tristi ed eteree che accompagnano una musica scura e dimessa.

Recentemente, mentre cercavo offerte interessanti tra gli Oscar Mondadori scontati del 25%, mi è caduto l’occhio su una copertina in cui campeggia un primo piano di una ragazza coi capelli biondo cenere e l’aria spaurita e sbattuta. Ho preso il libro, “La ragazza tatuata” di Joyce Carol Oates, e ho letto la quarta di copertina: a causa della mia dipendenza da storie di donne problematiche, non ho potuto resistere e ho comprato il libro.

Ora, la mia opinione sull’opera potrebbe essere lievemente influenzata dalla mia malsana passione per certi tipi di storia: quando il personaggio di Alma, appunto la ragazza tatuata, è descritto ed introdotto dall’autrice, il mio libero arbitrio si è preso un periodo di vacanza – alla seconda riga il colpo di fulmine era già partito, alle quinta volevo sposarla. Comunque, per quello che mi riguarda il libro è superbo.

Alma è una donna sconfortante: pressoché priva di istruzione, vive su convinzioni ed opinioni raccogliticce e pregiudizi radicati probabilmente fin dall’infanzia; è arrabbiata col mondo perché ritiene, realisticamente a ragione, di avere un credito inestinguibile con la sorte, e tuttavia si accusa delle sue scelte; non concepisce un tipo di interazione con gli altri che abbia una base diversa dal sesso; si innamora di qualunque uomo le conceda cinque minuti di attenzione (di solito come viatico per portarla a letto), e rimane innamorata di lui qualunque cosa le faccia; accetta maltrattamenti e violenze dalle persone che ha attorno mentre si chiede cosa voglia da lei chi cerca di essere gentile, covando odio e risentimento nei suoi confronti. Una tizia che se le va a cercare con cura, insomma, per la quale tuttavia non si può fare a meno di provare empatia – o almeno, io nel romanzo stavo dalla sua parte anche quando dava di matto.

C’è poi qualche altro bel personaggio, in primo luogo Josh Seigl, uno scrittore che si avvia ai 40 anni e la assume come assistente senza nessuna base logica – a questo proposito, quanto riportato nella presentazione del libro non è del tutto esatto, perché nel corso del romanzo non nasce nessuna complicità tra lui ed Alma, anzi per lo più i due vivono in mondi separati e comunicano a monosillabi perché ognuno dei due non capisce come potrebbe interfacciarsi con l’altro, né sembra troppo interessato. Seguono l’amante di Alma, che la maltratta, la deruba e la cede agli amici tenendola per la maggior parte del tempo sballata, la sorella disturbata e paranoica di Josh, più una breve serie di individui di rilevanza molto limitata, che hanno come unico scopo quello di far sentire Alma sempre fuori luogo, e di farla chiudere sempre più in sé stessa, nel suo odio e nel suo rancore verso il mondo, foraggiati dal suo cosiddetto amante che la usa senza nemmeno provare a nascondersi – lei stessa ne è consapevole ma rinuncia a combattere, preferendo concentrarsi sull’odio verso chi prova a trattarla con rispetto. Il tutto fino ad un finale nemmeno troppo scontato, che suggella e completa un’opera a suo modo maestosa nel descrivere il dramma quotidiano sconvolgente e terribile di una persona invisibile, nel dare corpo e sentimenti tutt’altro che ovvi, evitando il tono paternalistico e la retorica della vittima, a chi non è in grado di esprimerli.

E insomma, la Oates ha scritto un gran bel libro, che di temi ne tocca tanti, dalle difficoltà di comunicazione tra persone differenti all’accettazione della propria mortalità, passando per un intelligente ritratto di una persona sola, emarginata e sostanzialmente sconfitta, e tutti come sfondo ad una storia complessa ed interessante, penso e spero anche per chi è un po’ meno monotematico di me.

Consigliatissimo.

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Philip Roth: “Pastorale americana”

29 sabato Dic 2012

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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11 settembre, adolescenza, America, letteratura, lettura, libri, Nobel, Nobel per la letteratura, pastorale americana, Philip Roth, premio Nobel, protesta, Pulitzer, rabbia, ribellione, Roth, Sessantotto, sogno americano, stampa, Stati Uniti, USA

Philip Roth - Pastorale americana“Pastorale americana” è considerato il capolavoro di Philip Roth, il libro che viene più volte utilizzato come esempio da chi propone la sua candidatura al Nobel per la Letteratura. Come tanti libri di questo tipo, molti ne parlano ma pochi lo hanno letto, anche perché se lo avessero letto probabilmente lo stuolo di ammiratori sarebbe assai meno nutrito.

Il romanzo racconta il sogno americano al rovescio di un tipico statunitense medio, detto “lo Svedese” per via della struttura fisica. Come in molti altri libri di Roth, il protagonista è ebreo, e come in molti altri libri di Roth questo è un dettaglio del tutto superfluo nello sviluppo complessivo dell’opera, ma serve per inserire qua e là elementi che sottolineano la scarsa integrazione degli ebrei nella società, tra l’altro molto spesso autoinflitta. La vita dello Svedese, un giovane sportivo di talento che preferisce abbandonare velleità di carriere professionali per assumere il comando della fabbrica di guanti del padre, viene spezzata quando la figlia adolescente e problematica – affetta da una balbuzie che l’analista che la ha in cura attribuisce alla sua necessità di attenzione – decide, durante i tumulti degli anni Sessanta, di portare, letteralmente, la guerra a casa propria, facendo saltare in aria uno spaccio, episodio in cui un uomo rimane ucciso, per poi svanire nel nulla.

Da lì in avanti, salvo alcuni episodi grotteschi e completamente gratuiti, lo Svedese non fa altro che ripercorrere i ricordi felici condivisi con la figlia prima della rabbia adolescenziale, alternandoli a profondi e laceranti dubbi su cosa possa aver scatenato tanto rancore in lei. E le cose non vanno tanto bene.

La descrizione del vissuto con la propria figlia si risolve in una serie infinita di tirate lunghissime e noiose aventi come argomenti centrali scene assolutamente triviali di vita familiare: episodi condivisi da chiunque abbia mai avuto a che fare con un bambino che cresce, davvero nulla per cui valga la pena spendere pagine e pagine, salvo voler mostrare di saperlo fare in modo originale e di saper commuovere su aspetti così banali – ed è molto discutibile che Roth sia riuscito nell’intento. Il problema è che detta così più che una fatica narrativa si direbbe un esercizio di ostentazione di virilità: niente di nuovo per un autore che fa della potenza sessuale un argomento ricorrente.

L’interrogarsi sulle cause della rabbia invece porta a galla un aspetto diverso. Tanto per cominciare, un’adolescente problematica, con questioni irrisolte dal punto di vista psicologico, che, mal consigliata da opportunisti malintenzionati, finisce preda della propria ira in un momento storico delicato e compie un omicidio – tra l’altro non volontario perché fa esplodere l’ordigno quando lo spaccio è chiuso e il morto si trova lì per caso – non mi sembra un esempio calzante di “rabbia cieca dell’America”, come invece si legge in quarta di copertina. La ragazza non entra in una gang, nella mafia o nell’esercito di Allah: è una sedicenne che fa una cazzata e finisce per pagarla. Sinceramente, come rabbia cieca c’è di peggio. Ma non è nemmeno questo il punto.

Il punto è che lo Svedese viene descritto come totalmente privo dei mezzi finanche per affrontare che una cosa del genere possa essere capitata a lui; il protagonista si trova disperso, disarmato, non tanto di fronte alla portata della tragedia, quanto di fronte alle supposte cause scatenanti. Non capisce, non riesce a capire come un’America come quella che lui conosce e di cui fa parte possa essere oggetto di un odio tanto profondo e radicato – sempre al punto di piazzare una bomba in un edificio che ritiene vuoto e di aver paura di affrontare le conseguenze quando la faccenda sfugge di mano, non di far saltare in area premeditatamente un centro commerciale il primo giorno di saldi – indipendentemente da cosa comporti questo odio. In modo un po’ maldestro, quello che Roth fa molto lentamente emergere, senza nessuna traccia di ironia o di critica, anzi con un’empatia degna di miglior causa, è che lo Svedese non è in grado di affrontare, accettare, comprendere il fatto che sia proprio il cosiddetto sogno americano ad essere disprezzato e combattuto. Un atteggiamento vittimistico, autocommiserante ed autoassolutorio inaccettabile, ed in questo sconforta, ma non sorprende, che l’autore sia stato premiato con il Pulitzer nel 2002 – ossia immediatamente dopo che gli Stati Uniti si sono accorti, senza tra l’altro essere riusciti a capire il perché, sorvolando su cosa è dovuto succedere perché se ne rendessero conto, che non tutti nel mondo li amano e li ammirano.

Davvero uno scrittore la cui opera più rappresentativa assume queste fattezze dovrebbe vincere il Nobel per la Letteratura? D’accordo che l’ha vinto anche gente allineata sulle posizioni di regimi totalitari allucinanti, ma andiamo, su! Due torti non fanno una ragione.

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