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~ "Non ci sono tante pietre al mondo!"

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Irlanda

16 martedì Gen 2018

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Fingersi esperti di musica

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Achtung baby, addio, anni 90, anni novanta, Bono, britpop, Celti, costume e società, Cranberries, Dolore O'Riordan, Dublino, Eire, Enya, folk, indie, indie rock, Inghilterra, IRA, Irlanda, Limerick, musica, musica celtica, musica folk, musica pop, musica rock, O'Riordan, politica, pop, pop-rock, RIP, rock, Roddy Doyle, società, storia, storia contemporanea, The Commitments, The Edge, The Fly, U2, Ulster, Zombie, Zoo TV

Era un po’ che pensavo di scrivere questo articolo: mi ritrovo a farlo oggi, per commemorare la povera Dolores O’Riordan e ricordare perché una come lei è stata una presenza fondamentale per la mia generazione.

Per chi c’era e se lo ricorda o per chi se lo è fatto raccontare, verso la metà degli anni Novanta improvvisamente ha cominciato ad andare di moda l’Irlanda. Dublino e le coste atlantiche dell’Eire hanno iniziato di colpo ad esercitare un fascino enorme su tutta Europa e tutti volevano, dovevano andarci. Ovviamente non era sempre stato così. L’Irlanda, fino a pochi anni prima, veniva vista da un lato come un paese povero, dall’altro come un luogo pieno di problemi, con l’Ulster e l’IRA, con la gente armata per strada ed i combattenti cattolici che mettevano le bombe nei locali di Londra.

Gli irlandesi più famosi del mondo, all’epoca, erano ovviamente gli U2: una band al culmine della fama, che veniva dritta dal capolavoro berlinese “Achtung baby” e dallo Zoo TV, da due anni di tournée trionfale e magnificente negli stadi di tutto il mondo, incarnati dal personaggio di The Fly, quasi un extraterrestre, che negli ultimi anni si era messo metaforicamente sulle barricate contro la guerra nella ex Jugoslavia e che in passato aveva celebrato personaggi come Martin Luther King e cantato la povertà negli Stati Uniti sotto Reagan.

Per il resto, l’Irlanda era una provincia dell’impero, dove si parlava più o meno la stessa lingua dell’impero, ma per il resto non diversa dall’Italia o dalla Spagna. Gli stessi U2 erano emersi in realtà dalla narrazione dell’Irlanda problematica, con brani anagraficamente vecchi più di un decennio ma spesso riproposti come “Sunday bloddy sunday” e “New year’s day”.

A contribuire al successo dell’Irlanda, allo svecchiamento della sua immagine di paese povero e violento, per dipingerlo come luogo attraente e pieno di opportunità, era stato in primo luogo, a livello vagamente elitario, “The Commitments” – parlo del film, tanti di quelli che lo magnificavano nemmeno sapevano che era stato tratto da un romanzo di Roddy Doyle – in cui gli irlandesi si identificavano come “i neri d’Europa” e come tali suonavano la musica delle classi lavoratrici, il soul, e si ponevano come dei giovani alla ricerca di uno sbocco in una realtà complessivamente povera, ma umanamente molto vivace. Poi era arrivata la musica: prima di tutto il folk – negli anni Novanta la musica celtica andava per la maggiore ovunque – e con esso la sua sacerdotessa indiscussa, Enya. Infine arrivò qualcun altro a cambiare tutto.

Originari di Limerick, quindi della provincia della provincia, un posto raffigurato fino a poco prima come un paese rurale ed in guerra che aveva dato l’origine di una musica evocativa e misteriosa, ecco quattro ragazzi con le facce normali ed un look ripulito che suonano un rock moderno e gradevole, con le influenze di Bono e soprattutto The Edge perfettamente identificabili, ma diversi, personali, attuali. Era normale che il rock-pop parlasse inglese, era normale che venisse dall’Inghilterra, da Londra, da Manchester, da Liverpool; molto meno, che una musica da tutti i giorni venisse dalle campagne irlandesi, per bocca e strumenti di quattro tizi che non si ponevano come divi o come portatori di chissà quali istanze e pretese, ma come gente che cantava la propria vita, che non c’entrava niente coi Celti e con l’IRA: la stessa vita di tutti. Una vita in cui la canzone simbolo della band era un brano che parlava della tragedia dei bambini nelle zone di guerra, ma non specificatamente nella guerra dell’Ulster. Una vita come la nostra, insomma.

Per cui ecco che improvvisamente l’Irlanda non era più il paese delle bombe e dei Celti, di una ninfa irraggiungibile e di un alieno infallibile: era un paese come tutti, in cui si poteva partire da una pagina bianca per parlare e dire qualsiasi cosa, in cui quattro tizi dall’aria timida capitanati da una giovane donna coi capelli biondo platino ed una voce potente ed incredibilmente espressiva potevano aprire la bocca per cantare ed emozionare mezzo mondo con canzoni semplici, dirette, oneste.

I Cranberries di Dolores O’Riordan, per l’appunto: una band che ha cambiato l’immagine di un intero paese praticamente da sola. E pensare che c’è chi dice che la musica non ha nessuna vera valenza politica.

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Rivelazioni

25 mercoledì Ott 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Un mondo di cialtroni

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abusi, abuso, abuso di potere, alfa, Amazon, ambizione, Asia Argento, Bezos, Bill Gates, cialtroni, competitività, costume e società, Cristiano Ronaldo, donne, Eataly, economia, Farinetti, femminismo, Harvey Weinstein, Hollywood, Lady GaGa, maschi alfa, Merkel, Michael Crichton, molestie sessuali, personalità alfa, politica, potere, Renzi, ricchezza, rivelazioni, sesso, società, stupro, uomini, valori, violenza, violenza sessuale, Weinstein

Allora, in Italia, nel 2017, pare che grazie al caso Weinstein ed alle denunce di Asia Argento, con tutto quello che ne è seguito, abbiamo scoperto che le persone di potere commettono abusi. Per il 2018 mi aspetto l’incredibile rivelazione che l’acqua è bagnata.

Senza andare troppo indietro, correva l’anno 1994 e negli Stati Uniti un uomo finì sulla graticola: il suo nome era Michael Crichton, era l’autore del romanzo “Jurassic Park” che era appena stato trasposto al cinema per la regia di Steven Spielberg (cosa che ci aveva consentito di vedere dei dinosauri perfettamente credibili su uno schermo!), ed il motivo era la pubblicazione della sua ultima fatica letteraria, “Rivelazioni”. Il libro parlava della vita in un’azienda high-tech americana e il plot principale si snodava attorno ad una vicenda di molestie sessuali: la ragione del rumore fu il fatto che nel romanzo la vittima era un uomo ed il molestatore una donna, sua superiore.

Il libro fu subito accusato di essere antifemminista, ed in parte lo era, infatti Crichton aveva dichiarato più volte di non poterne più di un movimento che stava finendo per considerare la donna una specie protetta – un po’ come quella parte di femminismo nostrano che combatte il patriarcato per sostituirsi ad esso, ad esempio dicendo alle donne come vestirsi e comportarsi per evitare di screditare o creare problemi alla causa. I lettori che non soffrivano di analfabetismo funzionale, però, capirono abbastanza rapidamente che la tematica centrale non erano le molestie sessuali, ma l’abuso di potere. Nel libro, dopotutto, l’avvocato a cui il protagonista si rivolge per tutelarsi e minacciare causa alla sua superiore lo asserisce piuttosto chiaramente: le molestie sessuali non c’entrano niente col sesso, sono una manifestazione violenta di potere.

Qualsiasi persona ricerchi ossessivamente il potere, il successo, i soldi e qualunque altra forma di realizzazione personale che si basa sul sentirsi superiore agli altri, è uno che, in un modo o nell’altro, è propenso all’abuso. Politici arrivisti, arrampicatori sociali, squali della finanza, scalatori di gerarchie aziendali, imprenditori aggressivi e competitivi: tutte tipologie di individui da cui è lecito attendersi un comportamento abusivo nei confronti del prossimo. È quello che fanno le cosiddette personalità alfa.

Lo fa Renzi quando caccia dal partito chi non la pensa come lui e lo fa la Merkel quando impone ai greci di rinunciare alle cure mediche gratuite; lo fa Bezos quando obbliga i dipendenti a ritmi massacranti e condizioni lavorative schiavistiche e lo fa Farinetti quando ricatta i dipendenti e insulta chi lo contesta; lo fa il barone universitario quando chiede all’assegnista di portargli a spasso il cane o quando non gli fa firmare un articolo; lo fa il broker della City quando manda migliaia di persone sul lastrico spostando soldi per speculare o quando si assume il merito di un’operazione brillante condotta interamente dai suoi assistenti sfruttati e sottopagati; lo fa il tizio col Cayenne quando si ferma in doppia fila bloccando un parcheggio per disabili; lo fa il produttore di Hollywood quando fa capire alla giovane attrice (o anche al giovane attore, perché no?) che o si mette a 90 gradi o non lavorerà mai più.

Ovviamente, solo alcuni di questi comportamenti sono penalmente rilevanti, e l’abuso in ambito sessuale è particolarmente odioso, il punto è che però sono tutte facce della stessa questione – la necessità di esercitare ed ostentare il potere, il bisogno di essere riconosciuti come superiori. Il vero problema, però, è che la società attuale è di fatto subalterna alle personalità alfa: chi lotta, compete e fa di tutto per arricchirsi, emergere e conquistare potere, e ci riesce, è considerato un modello, uno da invidiare ed imitare – non parlo solo dei Bill Gates, eh, parlo anche dei Cristiano Ronaldo e delle Lady GaGa. Chi vive la sua vita con un sistema di valori diverso, non basato su ambizione e desiderio di successo, è normalmente visto come un debole.

L’ipocrisia della società, alla fine, è tutta qui: portare sul palmo di mano come esempi persone che sono intrinsecamente propense all’abuso, e poi sorprendersi e scandalizzarsi quando commettono abusi – ma solo (e nemmeno sempre) se gli abusi sono penalmente rilevanti: negli altri casi si tratta di personalità, carattere e abilità di leadership, mentre il povero sottoposto schiavizzato è solo un fallito che a questo mondo non sa farsi valere.

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Anne Brontë: “La signora di Wildfell Hall”

31 mercoledì Mag 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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alcoolismo, alcoolisti, Anne Bronte, autodeterminazione, Charlotte Bronte, Cime tempestose, classici, costume e società, diciannovesimo secolo, donne, Emily Bronte, epoca vittoriana, femminismo, indipendenza, Inghilterra, Inghilterra vittoriana, Jane Eyre, La signora di Wildfell Hall, letteratura, libri, libro, Ottocento, romanticismo, romanzi classici, romanzo, scrittura, società, Sorelle Bronte, Villette, XIX secolo

Ho comprato e letto questo libro a seguito di una breve conversazione su Twitter con una tizia che chiedeva ai suoi follower quale fosse la loro sorella Brontë preferita: avendo io letto materiale solamente di Emily (“Cime tempestose” e qualche poesia) e di Charlotte (“Jane Eyre” e “Villette”), e nulla di Anne, non potevo rispondere compiutamente alla domanda. Mi è stato allora consigliato di leggere quanto prima “La signora di Wildfell Hall”: essendo il libro disponibile nella libreria sotto casa a 4,90 euro, ho seguito il consiglio.

Il libro sostanzialmente consta di due romanzi quasi separati: una narrata da un uomo che ricorda degli eventi accadutigli anni prima tramite delle lettere ad un amico, la seconda raccontata tramite un diario da una giovane donna, ed è in pratica un flashback che si conclude con l’inizio della prima; nella terza e conclusiva parte, le due sottotrame convergono fino a giungere al finale.

Dal punto di vista stilistico, quindi, la più giovane delle sorelle Brontë si è andata a cacciare in un guaio di discrete proporzioni, essendosi posta l’obiettivo di narrare una vicenda da due punti di vista separati, tra l’altro fino ad un certo punto confliggenti, peraltro di sessi diversi. Purtroppo però c’è da dire che è molto discutibile che ci sia riuscita.

Parlando del contenuto, il libro è superlativo, forte, innovativo e ben più radicale persino di “Villette”, il romanzo di Charlotte Brontë che parla degli sforzi di una giovane donna di autodeterminare il proprio destino e dirigere in modo autonomo e consapevole la propria vita. In “La signora di Wildfell Hall” abbiamo a che fare di una donna che si ritrova con un marito alcoolizzato, privo di freni ed abusivo e decide di riprendere il controllo della propria vita, che fa delle scelte radicali per l’epoca, con una lucidità, una razionalità ed una capacità di guardare oltre il tornaconto personale e gli effetti immediati delle proprie scelte che la rendono una persona estremamente moderna anche comparata con svariati personaggi letterari contemporanei. Anche le minuziose e realistiche descrizioni degli effetti dell’abuso di alcool nei rapporti sociali ed individuali sono un notevole elemento di innovazione del romanzo.

Parlando dello stile, invece il discorso è un tantino più complicato. La scrittura è in buona sintesi spaccata in due – la narrazione ed i dialoghi. La prima scorre via per lo più piacevolmente ed in modo elegante e misurato; i secondi invece, anche quelli interiori, sono schematici e scolastici, infarciti di esagerazioni e discorsi da stracciamento di vesti che diventano molto rapidamente patetici, melliflui e ripetitivi. Siamo molto lontani dal lirismo di Emily e da Heathcliff che implora lo spettro di Cathy di perseguitarlo.

La parte scritta in prima persona dalla protagonista è molto interessante, anche in presenza di dialoghi assurdi ed imbarazzanti e di gente che si rende ridicola ogni volta che apre bocca, che sia per dichiarare amore imperituro o per dire scemenze in preda all’alcool: un pragmatismo che si confronta molto bene con quello di Charlotte, all’interno di una storia per molti versi più terribile, perché parla di presa di coscienza, responsabilità e cambiamento, non di formazione; la parte riferita dal giovane uomo è invece vagamente patetica nel suo insieme, perché non racconta una serie di situazioni in cui le persone accanto a lui si cacciano in situazioni infelici o patetiche mentre lui cerca di tamponarle, il primo a fare figure misere, oltretutto in continuazione, è proprio il narratore. E, diciamocelo, leggere di un servo della gleba che si rende ridicolo a ripetizione non è esattamente un piacere.

In conclusione, si tratta di una bellissima storia, con una quantità spropositata di elementi di rottura per l’epoca e molto istruttiva nell’ambito dell’origine del femminismo (qui abbinato ad un superbo senso del dovere) oltre che di molte altre cose di importanza ed elevatezza notevoli, che alla buona società dell’epoca devono essere piaciute pochino, ma inserite in un libro che proprio bellissimo non è: è un piacere leggerlo solamente quando a parlare è la signora Graham/Huntingdon, certo non quando parla il piuttosto ridicolo signor Markham – davvero, l’identificazione del lettore è ardua se non impossibile con lui. Peccato, però.

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Je suis Salvini

06 venerdì Mag 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Un mondo di cialtroni

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Adinolfi, Bologna, catalanata, collettivo Hobo, contestazione, democrazia, educazione, Fabio Volo, fascismo, Federico Moccia, Hitler, Hobo, integralismo, istruzione, Lega, letteratura, libertà, libertà d'opinione, libertà di stampa, librerie, libri, Massimo Catalano, Matteo Salvini, Mein Kampf, nazismo, omofobia, parola scritta, politica, politicamente corretto, potere, razzismo, religione, Salvini, schifo, società, stalinismo, stampa, vergogna

La notizia più o meno è nota: ieri il collettivo bolognese Hobo ha fatto irruzione in una libreria ed ha distrutto le copie del libro di Matteo Salvini (o di chiunque lo abbia scritto a suo nome). Ne è seguito il solito coro di indignazione unanime, che ha più o meno fatto leva sui soliti due concetti: i libri sono sacri e chiunque ha diritto di esprimere la propria opinione.

Ora, l’atto in sé è stato evidentemente un gesto eclatante, su cui si può essere d’accordo o meno – io francamente non lo so da che parte sto, so solo abbastanza bene da quale parte non sto – e che da un punto prettamente economico è stato sostanzialmente, ed in diversi modi, un vantaggio per autore ed editore. Le reazioni invece sono state quantomeno affrettate e singolari. Premetto che non ho letto il libro (né ho minimamente intenzione di farlo), quindi le mie riflessioni non si basano sui contenuti.

Cominciamo con la solita catalanata: una stronzata eversiva, un concetto razzista, un incitamento all’odio restano tali anche se vengono stampati su carta e poi rilegati. Questa faccenda che i libri, tutti i libri, siano oggetti sacri, è una fesseria. Un libro non è un paio di scarpe – un oggetto che ha il suo valore in quanto tale. Un libro non è un oggetto di arredamento, è ciò che contiene. Non è che il “Mein Kampf” è sacro perché è un libro. E soprattutto non è che le opinioni espresse nel “Mein Kampf” sono più accettabili delle deliranti dichiarazioni di Hitler perché sono riportate in un libro. Come ha scritto uno su Twitter stamattina, allora cosa dovremmo dire di tutti i libri mandati al macero ogni giorno perché invenduti?

Mi piacerebbe sapere quale sarebbe la reazione di tromboni tipo Michele Serra se ieri il collettivo Hobo avesse distrutto copie dei libri di Federico Moccia o Fabio Volo – tanto per citare due persone che non ho letto, e non voglio leggere, ma che godono di un certo livello di dileggio negli ambienti che se la tirano da intellettuali (tra l’altro non so Moccia, ma Fabio Volo mi risulta essere schierato a sinistra, e tempo fa è stato protagonista di una memorabile rissa verbale con Adinolfi, uscendone peraltro come quello più ragionevole e preparato dei due). Probabilmente buona parte di chi oggi parla di sacralità della parola scritta starebbe ridendo sotto i baffi. L’ipocrisia dei benpensanti politicamente corretti è nota.

Passiamo alla catalanata numero due: ovviamente nessuno può pensare di impedire a Salvini di avere ed esternare le sue deliranti opinioni. Il problema qui non è che Salvini pubblichi un libro, il problema è che quel libro abbia un mercato (al di fuori dell’umorismo trash, intendo).

Una società libera e democratica deve possedere gli anticorpi contro chi la vuole fare a pezzi. Gli anticorpi non sono le leggi, come il reato di apologia di fascismo o di vilipendio contro le istituzioni: sono l’educazione, l’informazione e la cultura. Una società evoluta emargina e combatte autonomamente ideologie razziste od omofobe, integralismi religiosi, istigazioni all’odio e pulsioni dittatoriali, perché le riconosce come un pericolo. Nessuno può proibire a Salvini ed Adinolfi di pensare che gli immigrati siano tutti delinquenti o che i gay siano malati, è anche difficile pensare di impedire loro di esprimere questi concetti. Un mondo appena passabile riconosce queste posizioni come false, antidemocratiche e pericolose e le isola, come isolerebbe un musulmano che predica la necessità del martirio, uno stalinista radicale, un cattolico che propone una cura per gli omosessuali o un movimento politico che ostenta saluti romani e croci celtiche.

In un mondo decente uno come Salvini sarebbe al bar con la bava alla bocca a farfugliare con la voce impastata contro negri, comunisti e froci e verrebbe trattato con divertita ed imbarazzata condiscendenza dagli avventori. Se volesse pubblicare un libro non troverebbe un editore, non tanto perché il libro è inaccettabile, ma perché è pieno di falsità ed è senza mercato.

Solo che questo mondo decente è educato, consapevole ed informato. Pare che sia più conveniente disinvestire nell’educazione pubblica e vietare per legge l’apologia di fascismo.

Nel frattempo ricordo a chi paragona il gesto del collettivo Hobo ai roghi nazisti che i nazisti quando bruciavano i libri erano al potere. Suggerisco di verificare chi, tra Hobo e la Lega, siede in Parlamento, è alleato di movimenti che ritengono l’omofobia un valore e ha il leader ospite in televisione con cadenza quasi quotidiana.

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Less than zero

17 sabato Ott 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Ciarlare a vanvera, Fingersi esperti di cinema, Fingersi esperti di letteratura

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American psycho, anni 80, anni ottanta, Brat Pack, Bret Easton Ellis, cinema, city, cocaina, critica sociale, droga, economia, edonismo, eighties, Ellis, evasione, Less than zero, letteratura, rampantismo, sballo, società, sociopatia, sociopatici, squallore, Stati Uniti, yuppie, yuppismo

Negli anni ottanta, durante il delirio reaganiano, l’edonismo, il monetarismo di Friedman che aveva portato gli Stati Uniti vicini alla bancarotta e diverse crisi debitorie paesi del terzo mondo, uno scrittore, Bret Easton Ellis, decise di narrare l’epopea di un decennio in un modo più cinico rispetto alle rappresentazioni mainstream, intendendo “cinico” nella definizione di Ambrose Bierce: “mascalzone che, a causa di un difetto alla vista, vede le cose come realmente sono e non come dovrebbero essere”.

Ecco dunque che lo yuppismo, quello dei giovani rampanti che uscivano dalle grandi università e si facevano strada con un atteggiamento aggressivo e spietato, assieme a tutti i cliché che gli giravano attorno, quindi le persone alla moda, bellissime, festaiole ed iperattive, venivano descritte con un tono disincantato: come degli egolatri a malapena consapevoli delle proprie azioni, e certamente ancora meno consci delle loro conseguenze, in massima parte cocainomani, dipendenti dal sesso ed emotivamente, ideologicamente, eticamente, culturalmente vuoti. Gente tendente alla sociopatia e strafatta di testosterone e sostanze psicoattive che inseguiva il mito del muoversi, dell’arrampicarsi, del fare strada il più rapidamente possibile, a qualunque costo e senza curarsi di nient’altro che di sé stessa, che quando era fortunata riusciva a gestire i propri vizi e le proprie dipendenze limitandosi a qualche fuorigiri ogni tanto fino al momento di mettere giudizio e limitare lo sballo a situazioni selezionate, quando era sfortunata finiva tossicodipendente e senza sbocchi.

Nei libri di Bret Easton Ellis l’eroe, o quantomeno il personaggio meno repellente, è quello che in opere meno ragionate veniva descritto come lo sfigato, quello che ragiona e prende decisioni impopolari che lo allontanano dal gruppo, quello che vede il mondo attorno a sé che si autodistrugge e non ha nemmeno la forza per provare ad impedirlo. Un ottimo esempio è dato dal libro, poi trasformato in film con protagonisti alcuni elementi del brat pack, “Less than zero”, che inizia col giovane e vincente Julian che ruba la bellissima ragazza, Blair, al secchione Clay, partente per l’università con l’intento di studiare davvero e non di passare quattro anni di stravizi, e prosegue con Julian eroinomane e la ragazza modella cocainomane perfettamente convinta di poter gestire il vizio come fanno tutte le persone attorno a lei ed il povero Clay, tornato a casa per le vacanze di Natale, che si trova davanti questo edificante quadretto.

In “Less than zero”, così come in altri libri di Bret Easton Ellis, non c’è la persona che si perde perché ha dei problemi: c’è l’intera società che lo fa, e il problema che porta alla perdizione non è un dramma personale, è la società stessa. In questo senso, la cocaina, l’edonismo, il narcisismo e la tendenza alla sociopatia non sono visti come un male in senso didascalico, perché Ellis non scrive operette morali: definiscono un mondo che può essere seguito solo anestetizzandosi e lasciandosi trasportare, senza farsi domande, senza essere consapevoli di quel che si fa – una critica sociale feroce, perché se si prova un senso di disagio leggendo certe cose è ora di farsi qualche domanda sulla società in cui si vive, non su chi tira cocaina il sabato sera.

Uno scrittore acuto e brutale, uno scrittore che io non amo molto per il suo spiattellare le cose a volte senza altro fine che quello di dipingere lo squallore, eppure uno scrittore fondamentale nel tratteggiare una realtà superficialmente scintillante e attraente, ma vuota e votata all’autodistruzione. La stessa società, in fondo, del broker della City che tira fuori una bustina di coca in metropolitana e la sniffa di fronte a tutti. Uno che sposta miliardi di sterline al giorno, arricchendo sé stesso e la società che lo paga profumatamente sulla pelle di milioni di persone, uno che se si prendesse il tempo di interrogarsi sulle vite che distrugge quotidianamente forse si suiciderebbe assieme a loro, e che si tiene occupatissimo e strafatto per sopravvivere al suo stesso cervello.

Servirebbe un nuovo Bret Easton Ellis per raccontarne la vita, il mondo, la follia.

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Il declino del doppiaggio italiano

03 venerdì Apr 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di cinema, Un mondo di cialtroni

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attori, cinema, colloqui, cultura, declino, dialetto, dialoghi, dizione, doppiaggio, doppiatori, espressione, film, francese, Italia, italiano, lingua, linguaggio, Pannofino, parlato, recitazione, regia, scenografia, slang, società, voce

Da quando esiste il parlato nel cinema, una versione di un film per un pubblico di lingua diversa di quella in cui il film è stato recitato può essere prodotta in due modi: sottotitolando e doppiando. L’Italia si è specializzata nel doppiaggio. Altri paesi, come Belgio, Olanda, ma anche Stati Uniti, tendono invece a lasciare l’audio originale e sottotitolare i film. Dal punto di vista della cultura cinematografica, questo comporta una problematica non indifferente: gli italiani non sanno come recitano gli attori stranieri. Molte persone di mia conoscenza trovano incredibile che alcuni attori non abbiano mai vinto per esempio un Oscar, ma quante di queste li hanno mai sentiti, oltre che visti, recitare?

Ora, evidentemente, il doppiaggio presenta tanti problemi, come ad esempio l’intonazione, la durata delle battute, la sincronizzazione con il labiale. Per lunghissimo tempo, in particolare tra gli anni 50 e gli anni 70, l’Italia è stata famosa per avere una scuola di doppiaggio cinematografico tra le migliori del mondo. Probabilmente la migliore in assoluto.

All’epoca il cinema, in particolare quello hollywoodiano, aveva una struttura molto precisa, di fatto originatasi con il bianco e nero: impostazione teatrale, recitazione impostata, a volte quasi rigida (qualcuno ha detto Henry Fonda o Gregory Peck?), fotografia e ambientazione spesso addirittura solo accennate. Visti oggi, tanti film dell’epoca hanno scene palesemente costruite, i film girati all’aperto si riconoscono immediatamente. Allora gli aspetti principali di una pellicola erano la storia ed il suo sviluppo, mentre l’inserimento in un luogo fisico, nel mondo, erano un contorno che talvolta veniva messo in secondo piano o addirittura trascurato.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, questo approccio è stato modificato in modo progressivo. Da una quarantina d’anni a questa parte, tutti gli aspetti di realizzazione di un film si sono sempre più orientati verso un pieno sfruttamento delle loro potenzialità, soprattutto in termini di realismo. Non solo la regia, le luci, la fotografia e la scenografia, ma anche, se non soprattutto, i ritmi ed i dialoghi. Gli attori non si prendono più tempi lunghi, non dialogano più in modo chiaro e scandito, ma interagiscono come lo farebbero nel mondo reale. Oggi i personaggi parlano, anche quando questo non è richiesto da esplicite funzionalità narrative, con accenti, inflessioni dialettali, espressioni popolari, slang e spesso in modo veloce o strascicato, magari addirittura sgrammaticato e mangiando le parole. Il tutto all’interno di schermi che illustrano realtà solide, tangibili, non in uno studio con scenografie atte a raffigurarle.

Il doppiaggio italiano, invece, è rimasto fermo immobile a 40 anni fa: anche i doppiatori più bravi (penso a Pannofino, quello che presta la voce a Gil Grissom di C.S.I., a George Clooney e a Denzel Washington, e uno ci deve pensare prima di realizzare che il doppiatore è lo stesso) usano sempre una voce chiara, con evidente utilizzo del diaframma, ed un italiano perfetto, con una dizione che se venisse utilizzata al bar provocherebbe pura ilarità. Chiunque parli, dal presidente degli Stati Uniti al figlio di immigrati privo di istruzione, non si apprezzano differenze stilistiche. Ove ci sono, è perché hanno una qualche importanza funzionale, e sono comunque realizzate in modo stereotipatissimo (l’italiano in America che parla con calata napoletana, l’accento da cameriere di ristorante cinese dell’orientale, il timbro spagnolo sempre uguale per qualunque persona che parli castigliano, dal madrileno laureato al gaucho delle Pampas, credo che anche il doppiatore sia sempre lo stesso), non in base alla consapevolezza che le persone non parlano tutte nello stesso modo, e che il modo di parlare è una dei primi aspetti che permette di caratterizzarle, come esseri umani, non solo come cliché.

Come conseguenza, un film americano (e non solo americano, potremmo parlare anche del cinema francese e dello sconfinato utilizzo di espressioni colloquiali, abbreviazioni, acronimi e via dicendo che ne caratterizza la lingua) del 2015 è realizzato con tecniche del 2015 e recitato con approcci recitativi del 2015, moderni e iper-realistici. Le scene non riproducono ambienti urbani con due o tre riferimenti (visivi o meno) atti ad ambientarle, come un bistrot all’angolo o il Chrysler Building sullo sfondo: New York è New York e Parigi è Parigi, e non c’è bisogno dell’edificio noto per capirlo. Nella sua versione italiana, i ritmi, le scene, la regia, la fotografia e le espressioni degli attori sono attuali e dinamici; il parlato è impostato, chiunque parla come un cattedratico a partire proprio dalla respirazione e la lingua è, salvo aspetti esclusivamente funzionali, quella del 1970, comprese espressioni colloquiali come “chiudi il becco” (traduzione irrinunciabile di “shut up”), che nella vita reale non utilizza nessuno.

Che tristezza!

Poi sorge una domanda: tutto questo non è una sconfortante metafora del sistema Italia nel suo complesso?

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Neymar e il barista dell’Alfalfa

16 lunedì Mar 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Un mondo di cialtroni

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Barcellona, berluscones, Berlusconi, calcio, condanna, deterrenti, disprezzo, economia, El Mundo Deportivo, evasione fiscale, fisco, frode fiscale, giustizia, José Perals, legge, Madrid, Neymar, Renzi, società, Spagna, tasse

Per chi se lo fosse perso, il Barcellona è finito sotto le lenti della magistratura spagnola per frode fiscale nella faccenda dell’acquisto di Neymar, ingaggiato ad un cifra iscritta a bilancio di 57 milioni di euro e pagato, secondo l’accusa, 83 milioni inclusa la parte in nero, per un evaso di circa 26 milioni di euro. Evidentemente all’ottimo e soprattutto umile club che si pone come quinta colonna dell’indipendenza catalana (salvo che poi Iniesta, Xavi, Puyol, Pedro, Busquets, Piquè e via elencando hanno alzato la Coppa del Mondo vinta dalle Furie Rosse nel 2010 e celebrato in strada a Madrid) non è sufficiente il regime fiscale agevolato praticato dalla Spagna per l’ingaggio di professionisti esteri, di cui Galliani si lamenta in continuazione, ma che vale per tutte le aziende e nessuno ha pensato di scrivere nella legge che lo introduceva che una decina di club sportivi miliardari non dovrebbero poter utilizzare.

Il giornale “El Mundo Deportivo” ha poi ipotizzato che il procuratore José Perals, sostenente le accuse contro il club catalano, chiederà l’estromissione dello stesso dal campionato spagnolo. Ora, io non sono un esperto di diritto e non ho idea di come dovrebbero funzionare le cose, tanto meno in Spagna. A rigor di logica, la responsabilità penale è individuale, dunque se ci saranno dei condannati per l’evasione fiscale si tratterà delle persone che hanno materialmente commesso il reato, non di una società. In sede civile la società potrebbe invece essere condannata, ma bisognerebbe poi vedere un’eventuale condanna l’effetto che avrà sulla giurisdizione sportiva. La federcalcio spagnola è né più e né meno che un club, e come tale va verificato cosa recita lo statuto nel caso in cui uno dei suoi affiliati venga condannato in sede civile, od alcuni suoi membri vengano condannati in sede penale.

In Italia invece, come al solito, ci sono tre tipi di reazioni alla notizia: c’è chi se ne frega, chi si schiera pro o contro il club catalano sulla base di tifo senza nessuna conoscenza o approfondimento dei fatti, e chi, solitamente di area berlusconiana o cripto-berlusconiana (ad esempio chi va dietro a Renzi), sottolinea come José Perals, con le sue sparate e con la sua persecuzione verso un club che fa sognare milioni di tifosi invece di preoccuparsi dei rom, cerca attenzioni per fini personali.

Ora, la frode e l’evasione fiscali sono reati odiosi perché si tratta a tutti gli effetti di sottrazione di soldi pubblici, della comunità. Reati che nel mondo sono generalmente considerati gravi, mentre chi li commette è degno di disprezzo. Sono anche reati difficili da scoprire, che dovrebbero essere prima di tutto scoraggiati: è facilissimo asserire, come a volte capita in Italia, che i fondi per qualche opera pubblica, o per rendere il bilancio dello stato meno disastroso, dovrebbero provenire dal rientro dell’evasione, il problema è che ogni singolo reato fiscale va perseguito e portato a sentenza, e non è nemmeno detto che, anche stanando il furbo, si riesca a recuperare tutto quello che si è intascato.

Per queste ragioni, altro che cercare attenzioni: tentare di fare a pezzi il Barcellona in un affare del genere è fondamentale per due ragioni. La prima è che con un singolo caso si potrebbe rientrare di parecchi milioni – in ambito fiscale, non succede spesso, gran parte degli evasori sono perseguiti per cifre molto più piccole. La seconda è che, se, una volta provata la frode si riesce, applicando adeguatamente leggi e regolamenti, a danneggiare seriamente una delle società più importanti ed influenti di Spagna, con milioni di tifosi ed una cassa di risonanza enorme, l’indotto in termini di deterrenza sarà spaventoso. Ogni singolo individuo, quando si tratterà di aggiustare una fattura da poche migliaia di euro per risparmiarne alcune centinaia di tasse, avrà stampato davanti a sé un esempio e non potrà fare a meno di pensare: “ma se sono riusciti a beccare e a condannare il Barcellona, il Barcellona per la miseria, cosa potranno mai fare a me, barista dell’Alfalfa, se mi scoprono?”.

Che poi è più o meno il motivo per cui in Italia non si riesce a fare niente, contro l’evasione fiscale.

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Da un pulpito placcato in oro

17 domenica Ago 2014

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Un mondo di cialtroni

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Alessandro Di Battista, Berlusconi, cialtroni, Cosa Nostra, Di Battista, Donetsk, emergenza sociale, Gaza, Hamas, Iraq, ISIS, Israele, Libia, M5S, mafia, Movimento 5 stelle, Palestina, politica, riflessioni, società, terrorismo, terroristi, Ucraina, violenza

Ogni tanto, fortunatamente di rado, qualcuno nel mondo dà di matto, esce di casa armato e comincia a sparare. Siccome capita raramente, è ovvio che non si tratti di un’emergenza, per cui succede che talvolta qualche giornale ci faccia il pezzo sensazionalistico, ma per il resto la faccenda è giustamente trattata come residuale e studiata dagli addetti ai lavori.

Poniamo però che la frequenza di questi eccessi si moltiplichi fino a diventare un problema: la rilevanza sociale del fenomeno, la maggiore disponibilità di dati ed il fatto che riguarderebbero un universo complesso e vasto imporrebbero di trattare il tutto diversamente, come un qualcosa da prevenire a livello massiccio invece che reprimendo in casi isolati, se non altro per motivi di pubblica sicurezza. Supponiamo a questo punto che la statistica permetta di collegare il fenomeno con la perdita del lavoro: ovviamente non tutti i disoccupati sono dei potenziali assassini, ma la furia omicida colpisce solo i disoccupati.

Una società ha sostanzialmente tre modi di reagire: uno intelligente, uno virtuoso ed uno stupido. Quello intelligente consiste nel parlare con chi ha dato i numeri, fare ricerche psicologiche e statistiche per determinare le concause più frequenti e cercare di prevenire ulteriori esplosioni, ad esempio fornendo a chi viene licenziato in determinate situazioni un aiuto personale; quello virtuoso consiste nell’agire sulle cause primarie, cercando di rilanciare l’economia e combattendo la disoccupazione, che tra l’altro è un problema anche a prescindere dai folli che sparano; quello stupido consiste nel considerare chiunque perda il lavoro un potenziale assassino, quindi prendere i disoccupati, affibbiare loro l’etichetta di eversori o terroristi e porli sotto sorveglianza costante, o addirittura rinchiuderli.

A giudicare dalle reazioni all’incauto, scentrato e un po’ superficiale intervento di Alessandro Di Battista del M5S sul terrorismo, ed in generale a quello che succede in Ucraina, Israele, Libia e Iraq, l’Italia ha una forte predilezione per la soluzione stupida.

Una volta lessi un aneddoto: in Sicilia, una signora rimasta vedova si rivolse dappertutto per ottenere un lavoro che permettesse la sussistenza a lei ed alla sua famiglia; di fronte all’infinito numero di rifiuti subiti per via istituzionale, fu costretta a chiedere aiuto a Cosa Nostra, che si dimostrò in grado di risolvere il problema. Il mafioso pentito che raccontava questa storia commentava dicendo che, finché la mafia sarà in grado di farsi carico della povera gente meglio dello Stato italiano, non ci sarà speranza di sconfiggerla.

Trasferiamo tutto questo a Donetsk, a Gaza (ma anche a Tel Aviv) e nelle campagne libiche ed irachene, dove l’autorità costituita quando va bene non è in grado di impedire che qualcuno spari sulla folla, quando va male è lei stessa a farlo. Il quei luoghi il problema non è dare una vita dignitosa ai propri figli, è proprio impedire che muoiano sotto le bombe, sganciate a volte dal governo in carica o dai suoi alleati, il problema è che rivolgersi ai modi spicci di Hamas, delle milizie filorusse, dell’ISIS e dei fondamentalisti islamici per avere una protezione che chi di dovere non è interessato a garantire diventa una scelta naturale e comprensibile. Possiamo chiamare queste persone terroristi e rifiutarci di parlare con loro, e possiamo farlo da dentro uno Stato le cui istituzioni nel 1993, come appare oramai storicamente accertato, trattarono la fine degli attentati mafiosi non con la povera gente che si rivolgeva alla mafia per mancanza di alternative, ma direttamente con Bernardo Provenzano; possiamo accusare queste persone di essere manipolate o in malafede e sottolineare come sia noto che Hamas usa civili come scudo e nasconde i missili dove vive la gente, da dentro uno Stato, peraltro non in guerra, in cui milioni di persone credono che Berlusconi sia un sant’uomo perseguitato dalla magistratura comunista; ma francamente non sono sicuro di dove tutto questo vada a parare.

L’errore di Di Battista, assurdo a maggior ragione per uno che conosce bene la malafede nel riportare le dichiarazioni altrui, e che dovrebbe dunque evitare di esporsi a fraintendimenti (o anche ad interpretazioni corrette ma cialtrone, se le cose sono scritte in modo approssimativo) atti a radicalizzare le posizioni, è quello di aver utilizzato la terminologia generica di terrorismo, senza fare distinzioni, mettendo nello stesso pentolone chi si fa saltare in aria dopo che la sorella è stata uccisa in un bombardamento, chi si affida a dei miliziani dopo aver visto morire il proprio figlio di 7 anni mentre era a scuola ed organizzazioni ricche, potenti e criminali come Hamas o l’ISIS (in particolare quest’ultimo, gonfio di soldi, dotato di armi americane di ultima generazione e composto da gente di etnia sunnita), che, come la mafia in Italia, si sa benissimo cosa vogliono – per lo più soldi, potere e controllo del territorio – e che cosa sono disposti a fare per ottenerlo – a livello macro, non il bene della gente.

Io non so se si sia trattato di ignoranza, approssimazione o ingenuità, ma è stato un errore grave, soprattutto se la gravità di un errore si misura in termini delle sue conseguenze. Di Battista ha scritto che stava cercando di capire. La prossima volta si renda conto che quello di parlamentare non è un seggio dal quale si può pensare ad alta voce, faccia qualche sforzo in più e porti avanti un discorso giusto ed assolutamente condivisibile in modo strutturato e responsabile.

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Davide Longo: “L’uomo verticale”

21 domenica Lug 2013

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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barbarie, Davide Longo, decadenza, distopia, Enzo Jannacci, etica, futuro, Italia, Lansdale, letteratura, libri, morale, romanzo, scrittura, società

Davide Longo - L'uomo verticaleLa premessa d’obbligo è che il titolo non fa riferimento né al hombre vertical (Hector Cuper) né al concetto di verticalità con qualche doppio senso.

La società italiana è allo sbando. È sospeso tutto, niente lavoro, niente produzione industriale, niente servizi di base, niente telefono, luce solo qualche volta, non ci sono farmaci. Le forze dell’ordine e l’esercito non si vedono, forse tengono sotto controllo le bande criminali che imperversano, forse le bande criminali sono loro. Le frontiere sono chiuse e presidiate dalle forze armate. Impera la barbarie.

Perché? Non si sa. Longo assume che la situazione sia questa e non si mette a raccontare come ci si è arrivati. Il suo non è un libro di fantapolitica che racconti le fasi della distruzione della società italiana, quanto un’analisi delle conseguenze, cosa potrebbe succedere in caso di fine del mondo civilizzato. Lo fa dal punto di vista di un ex docente universitario e scrittore, una persona civile, colta, che finché ci riesce rimane fedele almeno ai suoi concetti di etica e di morale, che comunque in passato non gli hanno impedito di tradire la moglie con una studentessa, perdendo lei e la figlia.

Dal punto di vista editoriale, il libro è molto approssimativo: la prosa è sì fluente e intrigante, ma è inframmezzata da qualche scelta quantomeno singolare, quando non proprio da evidenti refusi, imprecisioni sintattiche ed anche contenutistiche. Una sciatteria nei processi di revisione davvero difficile da capire ed accettare. Inoltre, sotto il titolo dell’edizione tascabile compare il seguente frammento: “Come siamo arrivati a questo? Il male è germogliato in seno o siamo stati vittime di un contagio? E in entrambi i casi, perché i germi hanno trovato un terreno tanto fertile? Non ho da dire in proposito una sola parola illuminante. Non c’ero“. In apparenza una meschina auto-assoluzione. In realtà il discorso di cui è riportato il finale è invece una veemente auto-accusa in cui il protagonista ammette di esser per troppo tempo stato perso dentro la propria testa, a cavillare su aspetti cerebrali e fattivamente superflui dell’esistenza, senza preoccuparsi del mondo attorno a sé. Incomprensibile.

L’opera sostanzialmente si divide in due parti. Nella prima, il professore prende lentamente contatto con la gravità della situazione e col suo deteriorarsi, per poi iniziare a cercare di opporre alcune deboli contromisure, ad esempio sfruttare un salvacondotto per recarsi in Svizzera: personalmente, le ho vissute come pagine crude, claustrofobiche al limite dell’oppressione fisica, in cui non riuscivo a scorgere nulla non solo di incoraggiante, ma nemmeno di flebile speranza; davvero dura andare avanti, ogni volta dopo poche pagine ero costretto a posare il libro e respirare un po’. Tutto sommato, coi riferimenti ai paesi europei nei quali la vita continua tranquilla, uno scenario dello sviluppo della vita nel nostro paese certo catastrofista, ma complessivamente coerente e nemmeno così fantasioso – ed è questo che ho trovato veramente tremendo. Nella seconda, invece, tutto l’orrore piomba in testa alla piccola comitiva composta dal protagonista, sua figlia, il suo fratellastro e un uomo mentalmente fragile (e conseguentemente a chi legge), che si ritrova prima impotente di fronte alla perdita di tutto quello che ha, poi prigioniera di una specie di gang al seguito di un losco figuro che si propone come semi-divinità al suo interno.

Sostanzialmente, la prima parte si potrebbe sintetizzare efficacemente con le parole di Enzo Jannacci:

“Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore.
Dove ognuno, sì, e’ già pronto a tagliarti una mano
Un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore
E vedere di nascosto l’effetto che fa.”

La seconda invece è interamente riconducibile ad un grido a caratteri cubitali dell’autore: “ce l’ho più grosso di Lansdale”. Esagerazioni su esagerazioni, sovente gratuite, tanto per impressionare. Tra l’altro superflue: Lansdale ce l’ha palesemente più grosso di Longo, lo ha chiarito quasi 30 anni fa.

Comunque, anche coi suoi evidenti difetti, un libro interessante, ma tutt’altro che semplice. E ci vuole un po’ a leggerlo: di divorarlo proprio non se ne parla.

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Mario Monti e lo studente di Economia

22 venerdì Mar 2013

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia

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accise, Amazon, Beppe Grillo, Berlusconi, Bersani, carburanti, concorrenza, costi, costi di produzione, domanda, domanda e offerta, economia, economia politica, elasticità, governo, IVA, Keynes, liberismo, M5S, macroeconomia, Mario Monti, mercati, microeconomia, Monti, offerta, PD, PdL, politica, politica economica, politiche economiche, prezzi, società, studenti, tasse, toeria economica, università

Erasmo da Rotterdam ebbe a dire che “in regione caecorum rex est luscus” (nella terra dei ciechi, l’orbo è re). Il Parlamento italiano, tra una legge elettorale che impedisce l’indicazione delle preferenze agli elettori, le nomine fatte con sistemi clientelari, un insieme di partiti che hanno raccolto un numero di parlamentari inferiore alle attese, e il M5S che ha nominato gli eletti con delle primarie on line la partecipazione alle quali è stata per così dire contenuta, è pieno di incompetenti. Tra i personaggi in vista dei diversi schieramenti non c’è un barlume di cultura economica nemmeno per caso.

D’altra parte, basta dare un’occhiata alle dichiarazioni in campagna elettorale: a Berlusconi qualcuno aveva spiegato che, con le fallimentari supposte montiane di austerità così ben accolte dalla gente, era il caso di discutere i dogmi europeisti di rigore e monetarismo, e lui ripeteva le sue personali interpretazioni di concetti oggi superati del primo Keynes come mantra; Bersani, il candidato premier di una coalizione di sinistra, andava in giro dicendo che la sua agenda era l’agenda Monti, ossia un programma di liberismo estremo, più qualcosa, dove il “qualcosa” non è mai stato chiarito, verosimilmente perché prima bisognava che qualcuno nel partito l’agenda Monti la capisse; Grillo elencava un mash-up di proposte d’intervento di varia natura ed estrazione, per lo più estrapolate da articoli di grandi economisti nei passaggi che lo convincevano personalmente di più, oltretutto senza nessuna sorta di contraddittorio, neanche il cattedratico fosse lui; Mario Monti si lamentava di avversari politici che lo insultavano e passava il tempo a screditare la qualunque, tentando nel contempo di fare il furbo contro uno più furbo di lui, promettendo una riduzione delle tasse dallo scranno dal quale nei mesi precedenti, in un periodo di crisi, aveva tagliato i servizi, fatto licenziare gente, aumentato le accise sul carburante e l’IVA.

In tutto questo, tuttavia, l’agenda Monti è, ed è stata per mesi, l’occhio dell’unico orbo nel paese dei ciechi. Nessuno capisce niente di economia, quindi quello che dice uno che usa parole difficili e dà l’idea di sapere quello che fa assurge a punto di riferimento. L’Italia non lo vuole nemmeno sentir nominare – davvero mi chiedo quale primo ministro uscente abbia raccolto un riscontro elettorale più sconfortante dal 1946 ad oggi – ma i parlamentari non possono fare a meno di confrontarsi con lui, perché lui si comporta come uno che ne sa.

Ma poi Monti ne sa davvero?

Prendiamo ad esempio la seguente definizione: la variazione della domanda di un bene a fronte della modifica del suo prezzo è detta elasticità. Di solito la variazione della domanda e la variazione del prezzo di un bene sono inversamente proporzionali: se il prezzo dei biglietti del cinema aumenta, il pubblico in sala diminuisce. L’elasticità misura di quanto diminuisca il pubblico a fronte di un dato aumento del prezzo. I beni la cui domanda varia poco, fino a rimanere sostanzialmente inalterata, al variare del prezzo sono detti beni a domanda rigida. Tipici esempi di beni a domanda rigida sono le sigarette (perché danno dipendenza) e il carburante (perché la gente e le merci dovranno pur spostarsi). Questa definizione, con relativi esempi, è contenuta nelle prime 100 pagine di qualunque manuale basilare di economia. Ecco, il professor Mario Monti, in un momento in cui lo stato aveva bisogno di far cassa, ha aumentato le tasse su uno dei beni a domanda rigida per antonomasia. Avrebbe potuto farlo qualunque studente al secondo semestre di Economia.

Uno del secondo anno invece non lo avrebbe fatto. L’economia è una materia che richiede di studiare prima i sistemi più semplici per poi passare a quelli più complessi. Ora, la rimozione di un’ipotesi molto forte ma che semplifica parecchio gli aspetti teorici – l’assenza degli scambi con l’estero – viene affrontata quando si inizia ad avere una certa padronanza degli strumenti di base. Pertanto, uno studente di Economia del secondo anno sa qualcosa che al professor Monti evidentemente sfugge: che il costo del carburante fa parte dei costi che un’azienda che produce beni o distribuisce servizi deve affrontare, e dunque concorre a determinare il prezzo di quello che offre – che siano pane, libri o servizi sanitari – e ha un impatto sulle sue capacità di competere sul mercato.

Competere su mercati internazionali aperti per chi deve endemicamente, per colpa del governo, sostenere costi più alti è difficile. E lo stesso discorso vale per l’IVA e le tasse in genere: Amazon, che ha sede in Lussemburgo, paga le imposte in un paese in cui sono più basse che in Italia, quindi può permettersi, ceteris paribus, prezzi più bassi per via dei costi più bassi. Come può competere un’azienda italiana? La risposta dello studente del primo anno è pagando stipendi più bassi, come in Cina; tuttavia lo studente del secondo anno sa che se si tagliano gli stipendi la gente ha meno soldi da spendere e sia l’azienda in Lussemburgo che quella in Italia vedono ridursi le vendite. Mario Monti questo invece ancora non l’ha studiato.

O forse sì, e magari il problema è proprio quello. Avvilente.

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