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~ "Non ci sono tante pietre al mondo!"

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Irlanda

16 martedì Gen 2018

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia, Fingersi esperti di musica

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Era un po’ che pensavo di scrivere questo articolo: mi ritrovo a farlo oggi, per commemorare la povera Dolores O’Riordan e ricordare perché una come lei è stata una presenza fondamentale per la mia generazione.

Per chi c’era e se lo ricorda o per chi se lo è fatto raccontare, verso la metà degli anni Novanta improvvisamente ha cominciato ad andare di moda l’Irlanda. Dublino e le coste atlantiche dell’Eire hanno iniziato di colpo ad esercitare un fascino enorme su tutta Europa e tutti volevano, dovevano andarci. Ovviamente non era sempre stato così. L’Irlanda, fino a pochi anni prima, veniva vista da un lato come un paese povero, dall’altro come un luogo pieno di problemi, con l’Ulster e l’IRA, con la gente armata per strada ed i combattenti cattolici che mettevano le bombe nei locali di Londra.

Gli irlandesi più famosi del mondo, all’epoca, erano ovviamente gli U2: una band al culmine della fama, che veniva dritta dal capolavoro berlinese “Achtung baby” e dallo Zoo TV, da due anni di tournée trionfale e magnificente negli stadi di tutto il mondo, incarnati dal personaggio di The Fly, quasi un extraterrestre, che negli ultimi anni si era messo metaforicamente sulle barricate contro la guerra nella ex Jugoslavia e che in passato aveva celebrato personaggi come Martin Luther King e cantato la povertà negli Stati Uniti sotto Reagan.

Per il resto, l’Irlanda era una provincia dell’impero, dove si parlava più o meno la stessa lingua dell’impero, ma per il resto non diversa dall’Italia o dalla Spagna. Gli stessi U2 erano emersi in realtà dalla narrazione dell’Irlanda problematica, con brani anagraficamente vecchi più di un decennio ma spesso riproposti come “Sunday bloddy sunday” e “New year’s day”.

A contribuire al successo dell’Irlanda, allo svecchiamento della sua immagine di paese povero e violento, per dipingerlo come luogo attraente e pieno di opportunità, era stato in primo luogo, a livello vagamente elitario, “The Commitments” – parlo del film, tanti di quelli che lo magnificavano nemmeno sapevano che era stato tratto da un romanzo di Roddy Doyle – in cui gli irlandesi si identificavano come “i neri d’Europa” e come tali suonavano la musica delle classi lavoratrici, il soul, e si ponevano come dei giovani alla ricerca di uno sbocco in una realtà complessivamente povera, ma umanamente molto vivace. Poi era arrivata la musica: prima di tutto il folk – negli anni Novanta la musica celtica andava per la maggiore ovunque – e con esso la sua sacerdotessa indiscussa, Enya. Infine arrivò qualcun altro a cambiare tutto.

Originari di Limerick, quindi della provincia della provincia, un posto raffigurato fino a poco prima come un paese rurale ed in guerra che aveva dato l’origine di una musica evocativa e misteriosa, ecco quattro ragazzi con le facce normali ed un look ripulito che suonano un rock moderno e gradevole, con le influenze di Bono e soprattutto The Edge perfettamente identificabili, ma diversi, personali, attuali. Era normale che il rock-pop parlasse inglese, era normale che venisse dall’Inghilterra, da Londra, da Manchester, da Liverpool; molto meno, che una musica da tutti i giorni venisse dalle campagne irlandesi, per bocca e strumenti di quattro tizi che non si ponevano come divi o come portatori di chissà quali istanze e pretese, ma come gente che cantava la propria vita, che non c’entrava niente coi Celti e con l’IRA: la stessa vita di tutti. Una vita in cui la canzone simbolo della band era un brano che parlava della tragedia dei bambini nelle zone di guerra, ma non specificatamente nella guerra dell’Ulster. Una vita come la nostra, insomma.

Per cui ecco che improvvisamente l’Irlanda non era più il paese delle bombe e dei Celti, di una ninfa irraggiungibile e di un alieno infallibile: era un paese come tutti, in cui si poteva partire da una pagina bianca per parlare e dire qualsiasi cosa, in cui quattro tizi dall’aria timida capitanati da una giovane donna coi capelli biondo platino ed una voce potente ed incredibilmente espressiva potevano aprire la bocca per cantare ed emozionare mezzo mondo con canzoni semplici, dirette, oneste.

I Cranberries di Dolores O’Riordan, per l’appunto: una band che ha cambiato l’immagine di un intero paese praticamente da sola. E pensare che c’è chi dice che la musica non ha nessuna vera valenza politica.

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Piazze di Roma in estate

25 lunedì Dic 2017

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Tirarsela da fotografo

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Un giorno a Bologna

15 giovedì Giu 2017

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Villa Farnese a Caprarola

17 venerdì Feb 2017

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architettura, arte, arte rinascimentale, bellezza, Caprarola, Catena d'acqua, Cordonata, Farnese, foto, fotografia, fotografia digitale, galleria, galleria di immagini, galleria fotografica, gallery link, immagini, Italia, Lazio, Palazzo Farnese, rinascimento, Sala del Mappamondo, scala regia, storia, storia d'Italia, Vignola, Villa Farnese

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Siena, agosto 2016

01 mercoledì Feb 2017

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affreschi, Allegoria del Buon Governo, Amobrogio Lorenzetti, architettura, arte, bellezza, bello, Civetta, Contrade, foto, fotografia, galleria, galleria di immagini, galleria fotografica, gallery link, immagini, Italia, Loggia dei Nove, Lorenzetti, Lupa, Lupa senese, Palazzo Chigi Saracini, Palazzo Pubblico, Palio, Palio di Siena, piazza del Campo, Piazza Salimbeni, Piazza Tolomei, Porta del Cielo, Sala dei Nove, Sala del Mappamondo, San Domenico, Sant'Agostino, Santa Maria dei Servi, Siena, storia, storia dell'arte, Torre del Mangia, Toscana

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Parma

25 mercoledì Gen 2017

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Jonathan Coe: “La famiglia Winshaw”

15 lunedì Feb 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura

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amarezza, America, anni ottanta, avidità, capitalismo, Coe, crisi, economia, Europa, Gorbachev, guerra, guerra del Golfo, Hap e Leonard, Inghilterra, Iraq, Jonathan Coe, La famiglia WInshaw, Lansdale, letteratura, lettura, libri, libro, Londra, Medio Oriente, narrativa, politica, Reagan, romanzi, romanzo, Saddam, Saddam Hussein, schifo, storia, storia contemporanea, Tatcher, URSS, Winshaw

Jonathan Coe - La famiglia WinshawIn Inghilterra c’è uno scrittore. Dice, ce ne sono tanti. In effetti sì, Jonathan Coe non è l’unico, ma è il prototipo dello scrittore inglese. Uno che ogni volta che presenta un personaggio che parla in prima persona mi fa pensare “questo sono io in versione inglese”. Uno che racconta storie terribili, di denuncia, di disperazione, di formazione ed autoconsapevolezza, con leggerezza e capacità di far sorridere, quando serve, e l’abilità di infilare stoccate e cazzotti in faccia – peraltro anticipandoli adeguatamente, il che da un lato li rende leggermente più facili da assorbire, ma dall’altro comporta che la lettura dei suoi romanzi sia una continua spirale verso il basso, in cui quando si ricomincia a scendere si riparte più o meno dal punto a cui si era arrivati prima.

Ho letto tre o quattro libri di Jonathan Coe. Ne ho altri in coda: li leggerò, ma con calma. Coe non è uno scrittore che si può divorare, non è uno di quelli che ne leggi uno e poi leggi tutti gli altri in sequenza – io non lo faccio con nessuno scrittore, ma ce ne sono alcuni che mi fanno venire la voglia, o almeno che riescono a creare dei filoni o delle saghe che a volte penso di prendere e leggere tutte di seguito, un esempio è Lansdale con Hap e Leonard, un altro è Carofiglio con l’avvocato Guerrieri. Coe non è così. Coe scrive romanzi che riducono le mie certezze in particelle subatomiche, finito uno ho bisogno di una vacanza, altro che cominciarne un altro.

“La famiglia Winshaw” parla degli anni Ottanta in Inghilterra: il periodo della Tatcher, delle lotte contro i lavoratori ed i sindacati, dello yuppismo, dell’America di Reagan che armava Saddam Hussein contro l’Iran, dell’URSS di Gorbachev. Il decennio in cui si sono poste le basi per lo smantellamento dello stato sociale e dei diritti individuali e soprattutto collettivi, il periodo in cui il capitalismo ha smesso di essere un movimento economico per diventare pura avidità, necessità arricchimento a tutti i costi, sulla pelle di tutto e di tutti, 10 milioni di morti domani e chissà quanti l’anno prossimo sono irrilevanti se io posso permettermi un altro cottage nel Sussex.

La famiglia protagonista del romanzo è una sorta di dinastia la cui ricchezza affonda le origini all’inizio del XX secolo e si trova all’inizio del decennio dell’edonismo coi sette membri dell’ultima generazione invischiati in tutto ciò che è potere – politica, media, armi, cibo e via dicendo. Michael Owen, uno scrittore trentottenne in crisi umana e professionale cerca di rimettere insieme i cocci delle ricerche che ha effettuato negli ultimi anni sui Winshaw, dopo che un editore aveva promesso di pagarlo profumatamente per scriverne la storia. La gran parte del libro è dunque basata sull’alternanza tra la presentazione dei singoli membri tramite la penna di Owen e le avventure dello stesso Owen nella Londra a cavallo tra il 1990 ed il 1991, da lui narrate in prima persona. Le ultime 70 pagine sono invece una surreale riunione di famiglia nel vecchio maniero, con Owen presente ma non più narratore, a seguito della morte dell’ultimo patriarca, Mortimer, che ha arrangiato le cose per fare in modo, ça va sans dire, che vecchi scheletri vengano scoperti e antiche colpe espiate.

Un romanzo che, diversamente da altre opere di Coe, non approfondisce più di tanto gli aspetti interiori dei personaggi (anche se quando lo fa picchia giù duro come un macigno), ma preferisce concentrarsi su tematiche socio-politiche: un libro impegnato ed impegnativo, che descrive uno schifo indegno ed indecente, una società senza sbocchi, delle persone prive di qualunque sentimento umano tranne l’avidità, ed un mondo desolante e votato all’autodistruzione, la medesima che vediamo tutti i giorni come naturale conseguenza della storia recente – si può parlare della situazione del Medio Oriente, e degli attentati in giro per l’Europa, ma anche di un sistema economico insostenibile volto a promuovere ed incoraggiare le diseguaglianze e l’esclusione.

Un libro affascinante, spietato, durissimo, quasi un trattato di storia contemporanea, quantomai attuale per chiunque voglia chiedersi dove e quando le cose hanno iniziato ad andare storte. Difficile da leggere senza farsi venire una gastrite, ma necessario.

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Scienza e scienza dei dati

29 venerdì Gen 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Farneticare di politica ed economia

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analisi dei dati, analisi economica, austerità, big data, big data analysis, Bretton Woods, Cassandra, crisi, data science, data scientist, dati, economia, equilibrio, Europa, fisica, gravità, Keynes, keynesiani, metodo, monetaristi, probabilità, quantitative easing, scienza, scienza dei dati, Statistica, storia, storia economica, teoria economica

C’era una volta l’analisi economica, basata su tecniche statistiche e lettura dei risultati senza sovrastrutture teoriche. Poi gli economisti si convinsero di essere degli scienziati puri, al pari di fisici e biologi, e cominciarono a costruire modelli matematici per formalizzare teoricamente il comportamento del mercato. Questi modelli si basano su ipotesi, alcune delle quali realistiche, altre di comodo. Anche un modello fisico si basa su ipotesi, ad esempio la forza di gravità: senza gravità la fisica non ha senso. La differenza è che la forza di gravità è un costrutto oggettivo e misurabile, il comportamento umano no. Questo comporta delle difficoltà, se un modello economico deve spiegare e prevedere il comportamento di milioni di esseri umani, tra l’altro in un sistema complesso. Di conseguenza, nel tempo, i modelli sono diventati sempre più complicati ed astrusi, perdendo gran parte del rapporto con la realtà.

Oggi fare analisi economica significa sostanzialmente due cose: nella maggior parte dei casi, costruire modelli di equilibrio generale che migliorino, nella struttura matematica e nella formulazione delle ipotesi, quelli esistenti; oppure analizzare i dati economici e dar loro una lettura, sovente sulla base della teoria economica di riferimento. Un monetarista troverà sempre una formulazione teorica che gli consentirà di spiegare un fenomeno, e poco importa che non sia in grado di spiegare il medesimo fenomeno in circostanze diverse.

La conseguenza la vediamo tutti: l’Europa è in crisi dal 2008 e non si riesce a partorire altro che misure recessive (austerità, politiche deflattive), ideologiche (privatizzazioni) e topolini (quantitative easing, bonus fiscali) per contrastarla. L’economia non riparte, e tutti a dire che non si sta facendo abbastanza, invece di chiedersi se per caso non siano sbagliate le risposte.

Una cosa tristemente analoga sta succedendo in ambito statistico con la cosiddetta data science. L’analisi dei dati, in sé, non è una scienza: il metodo scientifico è dato dall’applicazione della statistica mediante l’utilizzo della teoria della probabilità, che permette di misurare matematicamente il supporto sperimentale delle conclusioni che si raggiungono. Solo che i dati ci sono, ce ne sono tanti, c’è tanta potenza di calcolo, e allora tutti si sono convinti di poterli analizzare e trarne qualcosa di scientifico, o quantomeno di utile e spendibile, prescindendo dal rigore metodologico.

Ad oggi la dicitura data science sottintende l’utilizzo combinato di tecniche, mutuate da discipline che utilizzate in modo compiuto sono scienze, con fini analitici e predittivi. Il risultato è, solitamente, un gigantesco intreccio poco attendibile, ancor meno generalizzabile e scientificamente risibile. Il fatto che tutto questo si chiami data science è surreale, tuttavia l’aspetto preoccupante è che tutto ciò stia diventando routine. Tutti fanno data science o big data analysis, anche se non hanno capito bene cosa significhi, cosa implichi o a cosa serva in concreto. La conseguenza è che si stanno imponendo tecniche di analisi prive di qualunque legame col metodo scientifico, in cui è più importante tirare fuori qualcosa di spendibile subito che fare qualcosa di attendibile e replicabile in condizioni diverse, e non sono per niente sicuro di dove tutto questo conduca.

Io non so come le teorie monetariste post-crollo di Bretton-Woods siano state affrontate dagli economisti: so che negli anni ’70 tutti chiedevano spiegazioni alla crisi (tutt’altro che endemica) del sistema keynesiano, e chi era in grado di darle – ancorché zoppicanti – veniva ascoltato ed accolto come il Messia. 40 anni dopo non siamo in grado di affrontare una recessione da insufficienza di domanda, però buttiamo tempo e soldi in misure ideologiche ed inefficaci. Oggi che la statistica tradizionale mostra (per ragioni tecniche, non teoriche) il fianco di fronte all’enorme disponibilità di dati, il processo è analogo: tutti chiedono cosa fare con i terabyte di informazioni e chiunque dia delle risposte per avere tutto e subito, anche se prive di senso o metodologicamente sbagliate, è considerato un guru della data science. Non vorrei che ci risvegliassimo tra 40 anni, costretti a sperimentare i farmaci sulla popolazione durante un’epidemia perché non più in grado di fare un test double blind o incapaci di accettare che la scienza richieda tempo e rigore e sia fallibile.

Spero tanto di sbagliarmi.

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David Bowie: “Blackstar”

15 venerdì Gen 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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David Bowie - BlackstarNon credo che sarò capace di scrivere qualcosa di sensato, razionale e veramente ragionevole su “Blackstar”, disco pre-postumo di David Bowie, uscito il giorno del suo sessantanovesimo compleanno e due giorni prima della sua morte, quando l’oramai fu Duca Bianco lottava da un buon anno e mezzo contro un cancro al fegato che lo stava portando via. E sapete che c’è? Non me ne frega niente. Non è sempre possibile, e non è nemmeno sempre giusto, valutare le cose con l’intelletto.

Ho amato molto David Bowie in passato. Una delle costanti dei necrologi che ho letto l’11 gennaio è stato l’uso della parola “camaleonte” per descrivere la sua personalità e la sua carriera, un modo singolare di riferirsi al suo essere stato umorale ed eclettico per tutta la vita, talmente singolare e sbagliato da far pensare che buona parte di chi l’ha utilizzato lo abbia trovato scritto da qualche parte. Il punto però non è questo, ed il punto non è nemmeno che il camaleonte usa le sue capacità di trasformazione per confondersi con l’ambiente circostante, mentre se c’è una cosa che il Duca Bianco non ha mai fatto è confondersi. Il punto è che David Bowie è stato tante cose – prima di tutto un uomo libero, qualcosa che non viene mai enfatizzato abbastanza. E, se da un lato la sua capacità di reinventarsi e di scegliere il modo, gli strumenti ed il linguaggio che voleva per esprimersi è e sarà sempre degna della più alta considerazione, altrettanto non posso dire per tutte le forme che ha assunto ed utilizzato. Amare l’artista non significa sempre amare tutta la sua arte.

Il “mio” David Bowie è stato quello sperimentale ed elettronico degli anni Novanta, tra il rock, il jazz, l’industrial e la musica dance. Il suo primo disco che ho comprato è stato “1. Outside”, nel 1996, quello di capolavori storti ed alienanti come “The heart’s filthy lessons” e “Strangers when we meet” e di pezzi molto più sperimentali, assurdi ed angoscianti come “A small plot of land”, “Hello spaceboy” e “Wishful beginnings”. Ho adorato anche “Earthlings”, con la sua personale visione della musica jungle accompagnata da chitarra pianoforte e fiati, ho apprezzato “Black tie white noise”, con alcuni pezzi che sembrano mandati al contrario e delle hit sontuose, e non ho digerito il suo essere tornato al cantautorato negli anni successivi. Non ho mai gradito troppo la sua trilogia berlinese (trovo “Heroes” una palla!), ritengo straordinario “Scary monsters” (“Ashes to ashes”, porca troia!), e del suo primo decennio di musica tra beat, folk, art rock, glam e punk non ho intenzione di parlare qui perché altrimenti facciamo notte.

Il fatto è che “Blackstar” è un lavoro pazzesco per ragioni che vanno moltissimo, troppo al di là degli aspetti musicali. Io sono sconcertato da come David Bowie abbia deciso di dedicare gli ultimi mesi di vita ad un progetto lucido, razionale, coerente, ad un vero testamento artistico, a lasciare il mondo con qualcosa di memorabile. Ed il fatto che ci sia riuscito da un punto di vista strettamente musicale passa in secondo piano: si tratta di David Bowie, per la miseria, il disco rimarrà nella storia, comunque. E ci rimarrà perché ascoltare “Blackstar” a poche ore dalla sua morte è da brividi, da pelle d’oca, da lacrime agli occhi. È agghiacciate ed al contempo meraviglioso ascoltare la sua voce, la sua musica, la sua necessità di comunicare letteralmente dall’aldilà, in pezzi tetri ai limiti del macabro e forse oltre come la title track e “Lazarus”, e forse anche di più in brani apparentemente “normali”, anche se impegnativi e pesante come macigni nella luro cupa allegria. E se tutto questo non è umanità, non è arte, non è genio, allora davvero non so cosa lo sia.

Buon viaggio David Robert Jones! Addio e grazie di cuore!

David Bowie portrait

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Bruges

02 lunedì Nov 2015

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Tirarsela da fotografo

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