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Granato @ Wishlist, Roma, 18/01/2018

20 sabato Gen 2018

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di musica

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arte, canzoni, concerto, Corrente, cultura underground, elettronica, Francesco Bianco, Granato, Hån, indie, L I M, Lampedusa, Largo Venue, live, musica, musica dal vivo, musica elettronica, musica indie, musica indipendente, musica live, psichedelia, Roma, San Lorenzo, T.T.T., testi, underground, Wishlist

Dice, “a Roma non c’è una cultura underground”. Non è vero, a Roma la cultura underground c’è, il problema casomai è che nessuno se la fila. Di conseguenza, gli artisti underground, dopo averci provato per un po’, a fronte di una desolazione sconfortante nei riscontri, lasciano perdere e si dedicano ad altro.

Giovedì sera mi è capitato di andare al Wishlist, il locale dove nella primavera scorsa ho visto nientemeno che Rachael Yamagata, a vedere un gruppo esordiente della scena romana (ancorché capitanati da un cilentano) che ha appena pubblicato il suo primo album: i Granato – originariamente un duo formato da un tizio che gestisce la considerevole mole di elettronica ed ogni tanto suona la chitarra e canta ed un chitarrista, dal vivo c’è anche un batterista. All’ingresso della band sul palco, poco prima delle undici di sera, perché a Roma certi eventi sono preclusi per scelta consapevole a chi deve lavorare la mattina dopo, in sala c’erano meno di 30 persone. Ed eravamo in zona San Lorenzo, un quartiere centrale che si presume vitale soprattutto in termini di presenza giovanile un minimo curiosa, non sulla Boccea o a San Saba. Oltretutto, la folla si è persino assottigliata durante il concerto.

Ora, che i Granato possano legittimamente non piacere, non si discute: non fanno una musica esattamente accessibile od immediata, ed in una città in cui gente come Tiziano Ferro riempie uno stadio aspettarsi una cultura musicale passabile dall’ascoltatore medio rasenta l’ingenuità. Ma se parliamo di originalità, capacità tecniche ed espressive, allora il discorso non comincia nemmeno. Anche chi se ne è andato per questione di gusti non può negare che i tre musicisti sul palco e la loro produzione siano di un livello elevatissimo, sotto tutti i punti di vista.

Il disco di debutto dei Granato, “Corrente”, può essere ascoltato ed acquistato (in formato digitale a 4 euro) su Bandcamp. Personalmente, consiglio come minimo l’ascolto, perché si tratta di un prodotto raffinato ed insolito: per quello che mi riguarda, non ne amo troppo le parti vocali (notoriamente, per me certe atmosfere devono essere accompagnate voci femminili, possibilmente malinconiche), in compenso i testi, spesso politici e piuttosto radicali, sono interessanti e parecchio condivisibili.

Una volta ascoltato l’album, ponendo una certa attenzione alla terza traccia, “T.T.T.”, suggerisco di andare sul sito ufficiale della band. All’apertura parte un video con una spettacolare esecuzione live in studio di “T.T.T.”: rispetto alla versione incisa, c’è in più il batterista. Ecco, come si dice spesso dei musicisti bravi sul serio, i Granato risultano molto migliori dal vivo che su disco.

Quando poi uno se li ritrova davanti davvero, su un palco, che ricostruiscono i brani del loro al momento unico lavoro, alternandoli con vecchie composizioni, tutte strumentali, il discorso cambia ulteriormente.

Un mesetto fa ero andato a vedere due piccole ninfe della musica elettronica all’italiana al Largo Venue: due tizie davvero deliziose, eleganti, originali, una davvero molto espressiva, l’altra più ricercata e meno immediata. I Granato sono diversi: sicuramente nel complesso più insoliti, decisamente meno digeribili ad un primo approccio, vanno seguiti con attenzione e cura. In questo specifico aspetto, la differenza tra i pezzi del disco e la produzione precedente è palese: se le cose vecchie sono complesse e strutturate, ma comunque godibilissime anche per un ascoltatore distratto, i brani di “Corrente” richiedono attenzione assoluta. Il bello è che la ottengono: i Granato dal vivo sono espressivi ed ipnotici. L’aspetto che nel disco è per lo più assente ed in concerto brilla di più è una gradevolissima psichedelia di fondo, che si accompagna perfettamente agli sviluppi creativi ed a volta pindarici dei pezzi e che permette di andare molto oltre un ascolto cerebrale: coinvolge e talvolta travolge.

Dopo un’ora e venti, i Granato lasciano il palco, curiosamente omettendo di menzionare che il loro cd poteva essere acquistato in loco ed i prossimi appuntamenti, che sono anche molto ravvicinati: li risentiremo a Roma il 2 ed il 10 febbraio (stavolta nei weekend, dunque), rispettivamente a Centocelle e di nuovo a San Lorenzo. Speriamo con un successo di pubblico un po’ più consistente, perché gente così se lo merita.

A presto, quindi!

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Canzoni

17 lunedì Ott 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura, Fingersi esperti di musica

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Beethoven, blues, Bob Dylan, canzone, canzoni, composizione, concept album, Dream Theater, folk, forma, italiano, jazz, Jefferson Airplane, letteratura, lingua, musica, Nobel, Nobel per la letteratura, opere rock, parole, Pink Floyd, poesia, pop, premio Nobel, progressive, Robert Zimmermann, rock, scrittura, standard, suite, testi, U2, versi

Cos’è una canzone? La definizione più generica dice che è un brano musicale per voce accompagnata da strumenti. Definizioni più strutturate incardinano la canzone all’interno di forme compositive, utilizzando il concetto di canzone strofica (ripetizione di un solo periodo musicale in cui il testo viene variato di volta in volta) e di canzone con strofa e ritornello (alternanza di due periodi, di cui generalmente uno varia il testo e l’altro no). La caratterizzazione diventa più aperta, ed allo stesso tempo più specifica, introducendo ulteriori concetti come il bridge (formalmente una transizione tra due temi, nella musica leggera il termine spesso descrive un tema, talvolta chiamato anche special, distinto da strofa e ritornello, solitamente con cambio di tonalità), l’introduzione, l’assolo ed il finale.

La musica cosiddetta leggera, il pop, il rock, il folk, ma anche il blues ed in qualche verso il jazz, si basano sul concetto di canzone. In realtà tantissime canzoni pop, rock, folk, blues e jazz sono tutt’altro che canzoni. Qualsiasi brano strumentale non è una canzone; brani con frasi musicali sviluppate in modo rettilineo e non ciclico, o alternati in modo non regolare, non rispondono alla definizione canonica; alcuni pezzi, più strutturati e basati su un intreccio di temi più complesso, sono formalmente diversi dalla forma canzone, e rispondono ai canoni, ad esempio, della suite; brani in cui la voce non è lo strumento principale sono difficilmente compatibili con la definizione; canzoni che sono parte di lavori più complessi, concept album ed opere rock, non dovrebbero nemmeno essere considerate composizioni isolate.

Una grossa percentuale della produzione rock e pop, dei 13 anni che vanno dalla pubblicazione di “Surrealistic pillow” dei Jefferson Airplane e “Freak out” dei Mother Of Inventions al canto del cigno della stagione progressive rappresentato da “The wall” dei Pink Floyd, è caratterizzata da tutt’altro che canzoni: brani estesi, pezzi con canoni sinfonici, composizioni libere, sperimentazioni con intrecci di temi musicali e unità ritmiche, assoli interminabili, fughe e via dicendo. Eppure, quando si parla di rock tutto è canzone. Suite da 20 minuti, pennellate di raccordo da 30 secondi, brani strumentali, pezzi basati su sviluppi di frasi musicali privi di qualunque struttura definita, composizioni basate su ritmi multipli: tutto è “canzone”.

Eppure nessuno, fatta eccezione per qualche direttore d’orchestra o qualche musicista di alto livello, questiona l’utilizzo del termine: “The dance of eternity” dei Dream Theater e “New manner” di Beatrice Antolini sono canzoni come “Pride” degli U2. Formalmente, non lo sono: è un utilizzo improprio del termine, identifica quella che ad oggi è una struttura mutevole, varia e di fatto onnicomprensiva, che rappresenta il grosso della comunicazione musicale contemporanea. Nel mio piccolo io utilizzo parole come “pezzo” o “brano” per identificare ciò che non è canzone. Possiamo anche coniare un termine nuovo, ma il concetto di fondo non cambia.

Invece, sono giorni che sentiamo una quantità enorme di tromboni sostenere in modo apodittico che quelle di Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura nel 2016, non sono poesie e pertanto Bob Dylan non fa letteratura. Il punto è lo stesso: come in musica si utilizza il termine “canzone” per descrivere un brano che non è una canzone come “After the ordeal” (è strumentale, anche se è basato sull’alternanza di strofa e ritornello) perché è il vocabolo che identifica meglio la famiglia di composizioni di cui fa parte, così in letteratura si utilizza il termine “poesia” per identificare le composizioni di Robert Zimmermann. Magari l’utilizzo è improprio (e allora non voglio più sentire chi se ne lamenta chiamare “One of these days” una canzone), magari possiamo chiamarle liriche, testi, composizioni brevi. Ma dire che non sono letteratura perché non rispondono a determinati standard, e dunque che è letteratura solo ciò che è definito oggi come letteratura, significa vivere dentro una prigione dorata ed elitaria, in cui la Nona di Beethoven non avrebbe dovuto essere chiamata sinfonia ed in cui masturbazioni tecniche contano di più della comunicazione e del messaggio che un’opera tenta di veicolare.

La disgrazia è che siamo pieni di gente del genere.

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Letteratura

14 venerdì Ott 2016

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura, Fingersi esperti di musica

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About a boy, anni sessanta, Bob Dylan, canzoni, comunicazione, Dylan, espressione, Joan Baez, John Lennon, Kurt Cobain, letteratura, lingiaggio, lingua, musica, Nick Hornby, Nobel, Nobel per la letteratura, poesia, premio Nobel, testi

Da ieri viviamo in un mondo in cui ad un autore di canzoni può essere assegnato il più alto riconoscimento letterario esistente. Un mondo in cui è stato sancito ufficialmente che la forma comunicativa pop prescinde dall’altezza e dalla complessità del messaggio veicolato. Un mondo in cui il linguaggio del rock e della canzone è stato equiparato definitivamente a quello della poesia, del teatro e della narrativa.

Nick Hornby, uno che il rock lo mastica parecchio, l’aveva detto anni fa: nel suo “About a boy” il protagonista rifletteva sulla capacità aggregativa dell’espressione di Kurt Cobain, un qualcosa che era in grado di far parlare persone altrimenti lontanissime, di creare un canale di comunicazione in cui riuscivano a riconoscersi ed a trovarsi individui straordinariamente diversi, ai limiti dell’incompatibile. E il punto è proprio questo: volendosi soffermare su un punto di vista strettamente letterario, tutti quelli che hanno creato linguaggi comuni per le loro generazioni, e parlo di Elton John, Bruce Springsteen, gli Smiths, gli U2, Ani DiFranco, Eminem e via dicendo, si sono sviluppati su una base culturale stabilita negli anni Sessanta, quando il rock era un movimento di rottura, di scontro generazionale, di autodeterminazione, di protesta. Nessuno di questi grandissimi autori di testi sarebbe esistito senza John Lennon, Marty Balin, Mick Jagger, Joan Baez e Bob Dylan. Se parliamo di lirica, di letteratura, di linguaggio inteso come forma scritta e parlata e non come comunicazione in generale, soprattutto Bob Dylan.

Chiunque si ribelli al Nobel per la letteratura assegnato a Robert Allen Zimmerman non ha capito diverse cose. Non ha capito l’abissale e straordinaria importanza nella storia contemporanea della forma espressiva della canzone rock. Non ha capito l’evoluzione della lingua e delle forme comunicative che ha portato milioni, miliardi di persone a parlarsi e capirsi mediante brani in versi di 30 righe. Non ha capito come anche la comunicazione di massa cinquant’anni fa sia stata completamente stravolta, rivoltata dal linguaggio delle canzoni. E non ha capito come tutto questo non sarebbe esistito senza un manipolo di innovatori che hanno creato qualcosa letteralmente dal nulla, di cui Bob Dylan è senza dubbio stato il più importante, perché è arrivato prima, per l’incredibile varietà di temi che ha affrontato e per le indiscutibili capacità di pensiero e scrittura.

Chiunque sostenga che Bob Dylan è solo un autore di canzoni può farmi il piacere di ritirare il suo nome dalla lista degli appassionati di musica: se quello che è generalmente riconosciuto come il più grande autore di testi di sempre non merita il premio Nobel per la letteratura per aver creato un linguaggio universale che si esprime attraverso le canzoni, la musica appunto (e non il linguaggio musicale, che è una cosa complementare ma diversa), allora la musica è nella migliore delle ipotesi una forma artistica di secondo piano, altrimenti intrattenimento, divertimento, passatempo. Chi ama la musica, chi la ascolta davvero, chi la considera un modo per conoscersi più approfonditamente ed esprimersi più completamente che attraverso altre forme di comunicazione, sa che non è così.

Da ieri viviamo in un mondo in cui è stato certificato con il bollo della forse più alta autorità letteraria mondiale che questo linguaggio esiste e può essere utilizzato per trasmettere messaggi di qualunque altezza e complessità. Non è solo intrattenimento: è una forma elevata di letteratura.

Da ieri, il mondo in cui viviamo mi piace un pochino di più.

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Emilie Autumn: “Fight like a girl”

28 venerdì Set 2012

Posted by In Bocca Al Lupo Express in Fingersi esperti di letteratura, Fingersi esperti di musica

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Asylum, canzoni, capolavoro, disco, Emilie Autumn, Fight like a girl, genio, industrial, lyrics, manicomi, musica, musica elettronica, musica indipendente, Opheliac, Plague Rats, testi, victoriandustrial

Emilie Autumn - Fight like a girlNoi Plague Rats abbiamo atteso a lungo la pubblicazione di un nuovo lavoro strutturato di Emilie Autumn. Sono passati 6 anni dall’uscita di quel capolavoro mostruoso che è “Opheliac” (quando avrò trovato le parole per descrivere cosa sia e cosa significhi per me quel disco tornerò sull’argomento), 5 da quella del bizzarro ma coinvolgente doppio strumentale “Laced / Unlaced”, e nel frattempo ci siamo consolati con tournée ed EP, questi ultimi non tutti completamente convincenti. Due mesi fa miss Autumn ha finalmente pubblicato “Fight like a girl”, che rappresenta una sorta di colonna sonora per il suo libro più o meno autobiografico, “The asylum for wayward victorian girls”, uscito nel 2009.

Al primo ascolto, confesso che ero terrorizzato: temevo un adagiarsi su una replica di “Opheliac”, o la decisione di staccarsi completamente dal passato con qualcosa di molto diverso, che abbandonasse il “victoriandustrial” che aveva reso Emilie un qualcosa di unico, sontuoso e straordinariamente affascinante. Niente di tutto questo: miss Autumn, oltre che un genio, è anche una persona intelligente (è singolare quanto spesso le due caratteristiche non coincidano) e ha molto chiaro quel che vuole e che deve fare. Certo, potrebbe aver aiutato il fatto che quando ho sentito il disco per la prima volta ero un po’ distratto.

Emilie-Autumn-cover-12177Il disco ha, a tutti gli effetti, la struttura della colonna sonora, anche con un approccio alla Broadway, e quello che accompagna è una storia macabra e terribile, narrata con un approccio tra il realismo spinto e la farsa. Da questo punto di vista la continuità con “Opheliac”, soprattutto dal punto di vista ideale, è molto più complessa e marcata di quanto non emerga da un ascolto superficiale. L’unità stilistica, sia con le opere precedenti che al suo interno, è molto meno evidente: “Fight like a girl” racconta una storia, attraverso un continuum che parte dalla title track e si conclude con “One foot in front of the other”, e che, dal punto di vista sonoro, inizia con atmosfere tipicamente elettroniche, con un piglio aggressivo, acido ed isterico, per spostarsi lentamente verso suoni più classicheggianti – molto al di là del marchio di fabbrica con violino e clavicembalo – accompagnati da pressanti basi sintetiche, che tratteggiano atmosfere più cupe, claustrofobiche e soffocanti. Il tutto è saltuariamente spezzato da qualche solitaria pennellata completamente fuori schema, come un’ariosissima ripresa strumentale del tema di “4 o’clock”, che si inserisce come breve interludio con un effetto quasi agghiacciante.

Gli aspetti lirici sono raccapriccianti, fanno quasi provare dolore fisico mentre li si segue. Per la maggior parte si tratta di una sorta di dialogo tra un’ospite del manicomio, guarda caso di nome Emily, le altre donne ivi rinchiuse, e la struttura stessa, con la sporadica apparizione di qualche elemento esterno – come una specie di banditore che invita i visitatori a godere dello spettacolo offerto dalle ragazze esibite come in uno zoo ed un fotografo che rimane colpito dallo sguardo della stessa Emily quando cerca di immortalarla. Tutte cose tutto sommato note a noi Plague Rats, ma non per questo meno sconvolgenti alla lettura e all’ascolto. Il cantato segue perfettamente questa struttura, alternando un tono baritonale drammatico, potente ed oppressivo ad altezze molto più femminili, utilizzate per lo più per dare un risvolto grottesco alle mostruosità narrate, con un utilizzo dell’ironia davvero da brividi. Subentrano ogni tanto intermezzi graffianti e momenti di cantato isterico, violento, brutale: nulla è lasciato al caso e ogni scelta, sempre, ha una motivazione chiara e precisa.

Se da un lato non c’è non solo un brano, ma nemmeno una strofa il cui testo non abbia un senso pressoché perfetto ancorché alienante, dal punto di vista musicale il disco ha alcuni momenti sontuosi nella loro tragicità. Su tutti, “Take the pill”, che si presenta come un pezzo gothic-cabaret atto a porre l’attenzione sull’abuso della prescrizione dei farmaci e sull’utilizzo degli stessi per plagiare le pazienti, che ne risultano private del controllo del proprio corpo e della propria mente, per poi trasformarsi in una sorta di inferno che parla di umiliazione, derisione e sevizie, quasi impossibile da ascoltare serenamente; “If I burn”, cupa, opprimente ed arrabbiata, originariamente scritta come monologo di una strega condannata al rogo dall’inquisizione e riadattata per l’occasione, un disperato e straziante canto intimidatorio che fa sentire il sapore del sangue, di chi tenta di ribaltare il rapporto di forza con il proprio torturatore – “if I burn, so will you”; “One foot in front of the other”, il brano che chiude l’opera, un crescendo ossessivo e glorioso di chi è riuscito a liberarsi dalla prigionia, di chi cammina libero per un mondo che oramai non conosce, ed in cui non ha a chi rivolgersi, e si trova davanti all’agghiacciante questione di tirare avanti. Un finale molto diverso da quello di “Opheliac”, in cui di fatto Emily, o chi per lei, dichiarava la propria morte come essere umano pensante; qui si parla di venirne fuori, anche se sconvolti dai ricordi di umiliazioni incredibili e disarmati di fronte al mondo.

Miss Autumn con “Fight like a girl” ha dimostrato quanto ancora ci fosse da dire su un argomento che, da osservatore, sembrava essere stato molto ben sviscerato. Non è “Opheliac”, ma bene ha fatto Emilie a non cercare di ripeterlo: ne sarebbe uscita una parodia. E davvero mi chiedo che cosa avrebbe potuto fare di strutturalmente migliore senza reinventarsi da zero: cosa che non ha nessuna intenzione di fare.

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